Il consumo di radici nella dieta crudista
Vediamo un breve florilegio delle radici utili in una dieta crudista, con le loro origini, proprietà e usi in cucina
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Pensando al crudismo immaginiamo spesso una tavola ricolma di frutta e verdure a foglia, poiché troppo spesso siamo abituati a escludere le preziosissime radici dal novero dei vegetali che si possono mangiare crudi, quando in realtà molte di esse si possono gustare non solo cotte.
Vediamo come!
La barbabietola
Cominciamo analizzando un classico: la barbabietola o Beta vulgaris. Nota anche come barbarossa, viene coltivata soprattutto per la sua inimitabile radice a fittone, che in alcune varietà può raggiungere dimensioni rilevanti (attorno ai 20 centimetri).
Si può benissimo mangiarla cruda, grazie al suo sapore dolce, con la tipica nota di “terra” che pian piano si fa apprezzare dai palati pazienti.
In queste inestimabili radici, la pianta stocca numerosi principi nutrizionali quali potassio, boro, vitamina A, antociani, nitrati e acido ossalico.
Quando assunta cruda, magari in un insalata mista tagliata a julienne o ridotta a cubetti e mangiata con semi di sesamo, di girasole, noci, sale e olio, è un potente rimineralizzante, depurativo, ricostituente; un vero aiuto per le ghiandole, in caso di calcoli renali o biliari, ed è inoltre in grado di detossificare i tessuti muscolari, pertanto è ottima per gli sportivi che hanno bisogno di eliminare l’acido lattico. Ideale da assumere al mattino o alla sera.
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Ecco una radice esotica, tutta da scoprire ed apprezzare, che ogni tanto appare sui banchi dei negozietti esotici o dei mercatini etnici.
La jicama (Pachyrhizus erosus) è una fabacea esotica, originaria del Messico (è chiamata anche ravanello messicano), che ama i climi caldi e i terreni aridi.
Il suo prezioso tubero ha polpa succosa e croccante, molto dolce, bianca, con una buccia marroncina con riflessi color platano e dalla forma più o meno simile a quella di una barbabietola.
Molti popoli nativi americani usavano e usano ancora legarsi delle trecce di jicama alla cintura da portarsi dietro come risorsa di acqua e di cibo, poiché pochi altri alimenti potevano superarla in questo.
La jicama, seppure ottima in insalata, è buonissima anche da sbucciare e mangiare come una mela, magari con del succo di limone e, perché no, con del peperoncino, come si usa fare in Messico.
Contiene un ampio spettro di vitamine tra le quali spicca l’acido ascorbico, buone dosi di fibra alimentare ed un importante probiotico: l’oligofruttosio inulina, responsabile del buonissimo sapore.
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Anche da noi in Italia cresce l’abitudine di usare questo nome giapponese per il Raphanus sativus, una radice bianca, in grado di raggiungere ragguardevoli dimensioni (svariate decine di centimetri).
Questa radice d’origine asiatica ben acclimatata anche in Italia, ha una buccia sottile, bianca, liscia, edibile.
Il gusto è piuttosto neutro, anche se alcune varietà hanno quella tipica nota pungente (talvolta molto pungente) simile al ravanello, piuttosto acquoso, e la consistenza è croccante.
Il daikon, che generalmente viene cotto o marinato o disidratato, si può consumare anche crudo, specie nelle varietà non pungenti.
Si può mangiare più o meno come una carota, aggiungendolo alle insalate, o gustandone le sottili rondelle con creme, come il pesto fresco o un hummus di germogli, ma sono anche buone con un semplice filo di salsa di soia.
Il daikon ha più carboidrati delle altre radici ed è ricco di vitamina C e folato. Contiene vari oligoelementi, tra i quali spuntano il potassio, il magnesio, il ferro e il calcio.
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La comune carota è forse l’unica radice (assieme al ravanello) che nella nostra tradizione culinaria siamo abituati a mangiare cruda.
Originaria dell’Afghanistan e divenuta dolce e arancione dopo un continuo lavoro di selezione genetica, la Dacus carota può in realtà presentarsi in vari colori: rosso, giallo, bianco, nero e viola.
Se le prime carote erano legnose, adesso la consistenza della carota fresca è croccante, perfetta per i crudisti che amano mangiare le cose come natura crea.
Se ci riferiamo alla carota arancione, la più comune, il colore è dato soprattutto dall’alto contenuto di beta cartonene.
Le varietà non troppo dolci contengono maggiori percentuali di falcarindiolo, un poliacetilene ottimo per rinforzare il sistema immunitario, responsabile della minore dolcezza.
La carota è una miniera di carotene e di zeaxantina, ma ha anche buone dosi di vitamina B6 e di vitamina K. Gli oligoelementi più contenuti sono il manganese, il potassio e il fosforo.
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Parliamo adesso di una radice che meriterebbe di essere riscoperta: la pastinaca, che porta il nome latino di Pastinaca sativa.
Imparentata alla lontana tanto con la carola quanto col sedano, presenta dei tuberi più piccoli della carota, spesso più legnosi e irregolari nella forma, dalla buccia e dalla polpla bianco avorio o color crema. Grazie all’azione del gelo invernale il suo sapore, non sempre apprezzato, diviene dolciastro.
Apprezzatissima ai tempi degli antichi Romani, la pastinaca contiene una vasta gamma di minerali, forse la più completa nel mondo delle radici, ha inoltre forti proprietà antiossidanti e buone quantità di minerali e fibra alimentare.
Generalmente viene mangiata cotta, poiché la cottura ne esalta la dolcezza, tuttavia un vero crudista sa apprezzare i sapori al naturale e sa inoltre approfittare a pieno dello scrigno di vitamine e minerali che la pastinaca rappresenta: è considerata un potente antiossidante, grazie ai numerosi metaboliti secondari come il falcarinolo e il panaxidiolo, ma ha anche la reputazione di cibo anticancro, antinfiammatorio e antidiabetico.
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