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Preziose creature marine nel cumulo di rifiuti nell'oceano

La vita resiste anche nel bel mezzo dell'immenso cumulo di plastica nell'oceano Pacifico. Ponendoci di fronte a un dilemma: è giusto ripulirlo?

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© zsv3207/123rf.com

L’“isola” di plastica nel Pacifico

Abbiamo tutti sentito nominare il Great Pacific Garbage Patch, quell’enorme accumulo di rifiuti (soprattutto di plastica) che galleggiano nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, “intrappolati” dalle correnti. Ci sono bottiglie, spazzolini da denti, boe, buste, miliardi di frammenti difficilmente riconoscibili. 

 

Sappiamo che viene impropriamente chiamato “isola” quando in realtà non si può calpestare, e quindi assomiglia di più a una zuppa. E sappiamo anche che è gigantesco: le stime sulle sue dimensioni vanno dai 700mila ai 10 milioni di chilometri quadrati. 

 

Il nuotatore francese Benoit Lecomte, nel 2019, l’ha attraversato per oltre 300 miglia nautiche per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei rifiuti di plastica. L’esperienza però si è rivelata molto diversa dalle sue aspettative. “Ogni volta che vedevo detriti di plastica galleggiare, c'era vita tutt'intorno", ha raccontato.

 

C’è vita in mezzo ai nostri rifiuti

I rifiuti di plastica finiti lì per colpa dell’uomo, spiega infatti il New York Times, convivono con insetti pattinatori, palombari, molluschi, crostacei, batteri, protozoi, alghe. Insomma, con quello che in biologia marina viene chiamato neuston, termine collettivo per indicare l’insieme di organismi che vivono nell’interfaccia aria-acqua, galleggiando (epineuston) oppure appena al di sotto della superficie (iponeuston).

 

La scoperta già di per sé è interessante, ma c’è di più. Lecomte era infatti seguito da una nave, con a bordo un team di scienziati intenti a eseguire un campionamento sistematico delle acque. Ebbene, dalle analisi è emerso che la concentrazione di neuston all’interno del cumulo di plastica era molto più elevata di quelle all’esterno. Raggiungendo, in alcuni punti, un rapporto 1:1 tra organismi viventi e frammenti di plastica. Un dato che ha stupito anche gli studiosi stessi.

 

Ripulire o no gli oceani dalla plastica?

Da un lato, di sicuro è confortante avere la dimostrazione del fatto che la natura sia molto più forte dell’uomo, e sappia germogliare anche laddove meno lo si aspetta. Dall’altro lato, le cose si complicano per chi si è posto la meritoria missione di ripulire l’oceano dai nostri rifiuti.

 

Il progetto più famoso in assoluto si chiama the Ocean Cleanup ed è stato ideato dall’olandese da Boyan Slat, all’epoca diciannovenne. La fondazione ha messo a punto un macchinario rivoluzionario, composto da una catena di barriere galleggianti poste in favore di corrente, che si riempiono di plastica per poi essere periodicamente svuotate da un’apposita barca.

 

La tecnologia è in funzione, con la promessa di rimuovere il 90% dei rifiuti dal Great Pacific Garbage Patch entro il 2040. Il rischio, però, è che finisca per danneggiare il neuston. Rebecca Helm, professoressa presso la University of North Carolina che sta elaborando i dati raccolti durante la spedizione di Lecomte, è netta: il suo studio “enfatizza la necessità di studiare l’oceano prima di tentare di manipolarlo, modificarlo, ripulirlo o estrarre minerali”. 

 

È vero anche però che i frammenti di plastica nel mare uccidono ogni anno più di un milione di uccelli e 100mila mammiferi marini. A dirlo è l’Unesco. E non è da escludere che incidano anche sulla nostra salute, visto che vengono ingeriti ed entrano nella catena alimentare. Insomma, il quesito è ancora aperto.