L'omeopatia: dalla teoria alla pratica
Una carellata su alcuni dei temi più dibattuti che riguardano l'omeopatia e la sua applicazione clinica
Principio fondante della terapia omeopatica è la legge di similitudine (similia similibus curentur): in realtà già intuita da Ippocrate agli albori della medicina, essa trova in Hahnemann, finalmente, la sua corretta applicazione, che la pone alla base di un nuovo e più efficace sistema di cura delle malattie umane, chiamato, appunto, omeopatia. In sintesi, attraverso le sue attente osservazioni, e le se sue profonde deduzioni, il medico sassone arriverà a riformulare la legge di similitudine in questa maniera: ogni malattia può essere guarita, utilizzando a piccole dosi (infinitesimali) quella sostanza della natura che, somministrata ripetutamente ad un individuo sano, è stata in grado di provocare sintomi simili a quelli da curare.
L’altra novità su cui si basa tutto l’impianto diagnostico e terapeutico dell’omeopatia è quella che permette al medico che la pratica, e la comprende appieno, di riconoscere la naturale complessità psicofisica dell’essere umano, aspetto questo che porta l’omeopatia ad essere una vera medicina olistica (olos in greco significa tutto) capace di rispettare, cioè, nel corso di qualsiasi patologia, quell’unità di psiche e corpo che è ciascuno di noi. Proprio per questo motivo, una corretta terapia omeopatica prenderà le mosse da quei sintomi che la medicina tradizionale molte volte sembra ignorare, per spostare l’obiettivo della cura dalla singola malattia, per la quale il paziente si è fatto visitare, alla persona intera intesa come malato, e farà uso di rimedi che, opportunamente preparati, hanno la capacità di rivitalizzare gli innati poteri di difesa di ogni essere, e di condurlo, così, ad una guarigione del tutto naturale, che si esprimerà, prima di tutto, con un sempre deciso miglioramento della sua emotività.
Soffermiamoci a questo punto, però, sull’esistenza di diverse scuole di pensiero, nella pratica quotidiana della medicina omeopatica, a cui corrispondono altrettanti modi di somministrazione dei rimedi omeopatici, e cerchiamo di comprendere da dove origina questa frammentazione, già presente all’epoca dello stesso Hahnemann, che al problema aveva dedicato un intero paragrafo dell’Organon dell’arte di guarire (§ 273).
Proceso Sanchez Ortega, eccelso omeopata di scuola messicana, scomparso recentemente, descrive a questo proposito essenzialmente quattro diversi modi di accostarsi, professionalmente, all’ omeopatia: il primo è proprio di quei medici di scuola tradizionale che, pur scarsamente edotti sui principi omeopatici, gradiscono comunque mescolare in maniera diversa le due metodologie (quella tradizionale, cioè, e quella omeopatica); vicini a questi egli pone coloro che, sedotti dalla variegata offerta delle metodologie alternative, accostano all’ omeopatia, somministrata per lo più su criterio allopatico, diverse tecniche proprie di altre specializzazioni (agopuntura, chiropratica, fitoterapia, ecc): Ortega chiama questi medici omnipraticanti o eclettici, ma senza dubbio ancora ben lontani dall’essere veri omeopati. Ad un gradino superiore il medico messicano pone complessisti e pluralisti, convinti solo in parte dei principi Hahnemanniani. Vengono poi gli unicisti, i quali, avendo compreso senza remore la reale ed unitaria complessità dell’essere umano, si convincono sempre più che, ad ogni tappa della sua sofferenza, è necessario utilizzare quell’unico rimedio capace di rispettarlo e curarlo sempre in quanto malato!
Ma a queste categorie Ortega ne aggiunge un’altra, che fin qui non abbiamo citato: egli li chiama i trascendenti, i professionisti dell’ omeopatia, coloro che considerano la malattia come l’effetto di un’ esistenza terrena, contrastante in tutto o in parte con l’intima, istintiva, e spesso inconscia tensione emotiva di ogni essere, a vivere la vita nella sua pienezza realizzativa. Questa pienezza esistenziale, intuita da questi omeopati come unica fonte di stabile benessere psicofisico, si compie solo quando la persona arriva ad operare sempre e comunque nel rispetto della sua e dell’altrui natura umana.
In altre parole: l’essere umano risanato nel corpo, ma soprattutto nella mente, sarà l’essere trascendente per eccellenza, ovvero colui che avrà progressivamente riacquistato tutta intera la capacità e la libertà di amare, tornando ad agire in armonia con quell’energia vitale coordinatrice e riparatrice, che è frazione dell’energia cosmica che governa l’intero creato.
Esistono, infine, una serie di luoghi comuni sulla medicina omeopatica che ne riducono, però, la sua diffusione, scoraggiando spesso in anticipo quanti desidererebbero ricorrere a mezzi di cura diversi dai tradizionali farmaci.
Una diceria molto diffusa è quella riguardante i tempi, spesso considerati eccessivamente lunghi, con i quali l’omeopatia sarebbe in grado di risanare dalle malattie. Come abbiamo già cercato di far comprendere, a differenza dei comuni approcci terapeutici, l’omeopatia non si accontenta di sopprimere i sintomi locali, pena la loro rapida ricomparsa alla sospensione delle cure, ma mira a guarire definitivamente dai disturbi, senza dover necessariamente rinnovare, per tempi prolungati, sostanze che già abbiano avuto un effetto benefico, come invece spesso accade con i farmaci di sintesi, di cui il malato finisce spesso per sperimentare anche gli sgradevoli effetti collaterali. In altre parole, quindi, il tempo di cura delle terapie omeopatiche è in realtà il tempo necessario alla persona per guarire, per liberarsi cioè, definitivamente, dai suoi mali.
Altra affermazione inesatta nei riguardi dell’omeopatia è quella secondo la quale, utilizzando per la cura delle malattie sostanze spesso estremamente diluite, al punto tale che con le tradizionali metodiche in uso, in molte formulazioni dei rimedi non è più possibile trovare alcuna traccia della materia originaria, la loro azione terapeutica si baserebbe semplicemente su di un banale effetto placebo, risultante dalla particolare disposizione all’ascolto e all’interesse per i pazienti propria dei medici omeopati. A questo proposito, però, troppo spesso ci si dimentica di affrontare e rispondere sensatamente ad un interrogativo posto dall’evidente azione curativa dei medicinali omeopatici nei riguardi di molti neonati, e degli animali domestici o di allevamento, esseri viventi che, per effetto della loro minor complessità rispetto all’individuo umano adulto e in buona salute, non sono suggestionabili in alcuna maniera.
Infine, molti annoverano l’omeopatia tra le tante mode, passeggere per definizione: è evidente invece come l’omeopatia, partendo dal concetto astratto di energia vitale, e tornando a questo, conferendogli finalmente un significato di senso compiuto, così come abbiamo cercato di spiegare, si pone aldilà di ogni moda, senza spazio e senza tempo, avente come unico obiettivo la riscoperta della semplicità e profondità originale dell’essere umano quale giusto mezzo tra la banalità dilagante, che mira a trasformare la persona in strumento, e la complicazione scoraggiante, che alimenta nell’uomo l’idea della sua incomprensibilità, aprendo così la porta a dogmatismi e manipolazioni di ogni genere.
Possiamo così concludere che scopo supremo dell’omeopatia non è semplicemente quello di liberare l’essere umano dalle sue sofferenze, bensì di ottenere questo risultato come effetto di un contemporaneo rinnovamento del suo modo di pensare e di agire, che lo porterà a riappropriarsi
progressivamente della sua naturale inclinazione ad amare il prossimo, come conseguenza del rispetto e della piena comprensione di se stessi, al cui conseguimento l’omeopatia può contribuire certamente quale strumento di ineguagliabile utilità.