Cos’è la legge del karma
Proviamo a dare uno sguardo a vari livelli interpretativi della cosiddetta legge del karma, un concetto asiatico (ma non troppo...) che è entrato a far parte dalla cultura comune.
“In fondo sono convinta che il karma consista semplicemente in cose che uno si trascina dietro perché non se ne è servito nel modo giusto”, cosi’ diceva Mirra Alfassa il 5 novembre del 1960.
Il concetto di karma appartiene, nella sua forma più evoluta, alle tradizioni orientali ma possiamo trovare dei prototipi di leggi karmiche già nelle più antiche culture sciamaniche e misteriche in giro per il mondo.
La legge del contrappasso, la legge di causa ed effetto, il concetto di cosmo senziente e intelligente che ribilancia gli eventi, sono in qualche modo presenti a tutte le latitudini.
Karma è un termine di origine sanscrito-vedica, e il suo significato principale è quello di “azione”, karma yoga infatti significa lo yoga delle opere, ovvero tradurre in azione lo stato di coscienza supremo.
Si tratta di un concetto che assume la forma di legge universale in un contesto che implica la reincarnazione o metempsicosi: l’anima, nelle tradizioni più semplici, si porta dietro, di vita in vita, gli effetti degli atti compiuti nelle vite precedenti, in un sistema di contrappasso e ribilanciamento che la costringe a reincarnansi finché tutti gli effetti non siamo estinti.
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Karma e rinascita
Questa è solo una concezione della legge karmica, solo un livello interpretativo che vede il karma come una legge inevitabile, imposta da un universo in qualche modo morale, che si basa sui concetti di bene e di male: fai del bene e riceverai del bene, fai del male e riceverai gli effetti che ne conseguono.
Tutti gli strascichi delle azioni compiute nelle vite passate ci impongono di rinascere per riequilibrare l’universo che abbiamo squilibrato, finché l’armonia non sia ristabilita, con la possibilità di uscire dal samsara, ovvero dal ciclo delle rinascite e da una realtà dualistica in cui male, morte e dolore sono inevitabili.
Il karma e la conoscenza di sé
Esistono però altre intrerpretazioni della legge del karma. Se l’anima individuale è il Divino stesso in una forma rappresentativa e immanente, come può il Supremo stesso sottostare ad una legge da lui creata?
Partendo da questo presupposto, ovvero che l’anima sia una scintilla del Divino, va da sé che non è l’anima a sottostare alla legge del karma ma altre parti che costituiscono i suoi strumenti di espressione, ovvero i vari corpi sottili che la rivestono di vita in vita.
Ma se l’anima è il Divino, essa è oltre la dualità, oltre il bene e il male, concetti che non possono aderire ad essa. Che fine fa allora la legge del karma?
Il karma a questo punto non rappresenterebbe più una differenza di potenziale tra bene e male ma tra coscienza di sé e della propria legge interiore (dharma), e incoscienza.
Quando si agisce in totale coerenza e conformità alla propria legge interiore, unica ed irripetibile per ogni individuo, siamo in totale armonia con l’universo, e quindi non produciamo nessuno sbilanciamento che saremo costretti a ribilanciare.
Ogni volta che agiamo spinti non dal sé ma dall’ego, composto da numerose fibre karmiche e soggetto agli impulsi della natura inferiore, non siamo in sincrono con l’universo, agiamo cacofonicamente e gli effetti di questa stonatura ci inseguono finché non ne capiamo il segreto e non ne traiamo il potere di trasformare la cacofonia in un’eufonia.
Karma come strumento di libertà
Ma poiché, per dirla con Lavoisier, “Niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma”, le anime e gli elementi stonati non possono semplicemente venir tagliati via o epurati in un qualche nulla o in un inferno eterno, vengono invece date loro infinite possibilità di scoprire se stessi, in un modo di volta in volta sempre più profondo, e ciò che in origine veniva considerata una legge impietosa ed imposta, diventa uno strumento di autoconoscenza progressiva ed infine, l’anticamera della libertà che spetta alle anime totalmente unite al Divino.
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