I germogli di una nuova consapevolezza. Intervista a Franco Arminio
Su quali radici possiamo (e dobbiamo) rinascere, dopo la ferita del coronavirus? L'abbiamo chiesto a Franco Arminio, poeta, scrittore e paesologo.
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©Franco Arminio / Facebook
“Questo dobbiamo fare, prendere la giornata come se fosse la nostra amata. Accarezzarla, averne cura. Noi tutto quello che possiamo avere lo abbiamo dalla giornata. E dobbiamo essere grati a ogni singola parte che compone la nostra giornata: per prima cosa la buona salute del nostro corpo, non c’è altro modo di essere sensuali che partire da una buona salute. Poi tutto conta, dal cielo, alle cose che dicono gli altri, al semplice fatto che c’è una strada, una casa. La giornata è il nostro regno, quella in corso, non quella di ieri o quella di domani”.
È una delle riflessioni che Franco Arminio condivide ogni giorno su Instagram dalla sua casa di Bisaccia, comune irpino di 3.800 anime. Nelle settimane in cui l’Italia è paralizzata dal coronavirus, il poeta e paesologo si è distinto per le sue riflessioni mai banali e per le sue iniziative dense di umanità.
Come rendere pubblico il suo numero e rispondere ogni giorno alle telefonate di chi sente semplicemente il bisogno di sfogarsi. Oppure l’appello a stare simbolicamente in silenzio per cinque minuti sabato 29 marzo, per rendere omaggio a tutte le persone che sono morte senza nemmeno il diritto a un funerale.
L’abbiamo raggiunto per chiedergli come immagina il nostro domani, dopo la ferita della pandemia.
Definendosi “paesologo”, lei racconta (e vive in prima persona) lo spopolamento dei piccoli borghi. Cosa significa il lockdown per questi territori?
Il fatto di avere tanto silenzio e poche attività qui è sempre stato normale. È come se tutt’Italia ci avesse raggiunto: noi eravamo fermi, gli altri si sono fermati, quindi siamo un po’ più vicini al resto d’Italia.
Qui c’è anche un fattore positivo. Chi esce non incontra nessuno, quindi il problema del distanziamento non si pone. Non c’è modo di produrre un assembramento, anche volendo.
Insomma, la situazione è ambivalente: da una parte questa somiglianza nel silenzio con gli altri luoghi, dall’altro il fatto che qui si sta paradossalmente meglio che in città.
Nel documentario Botanica per tutti, lei sostiene che la gloria dell’uomo sia nella consapevolezza della sua precarietà. Con la pandemia, questa consapevolezza si è acuita. Possiamo quindi intenderla come un’occasione di rinascita?
In un primo momento ho percepito un’eccezionalità degli italiani dentro il panico, che all'inizio è stato molto forte. Il terribile e il sacro un po’ si toccano.
Man mano che sono passate le settimane e la cosa si è leggermente attenuata, resta la grande preoccupazione per l’economia ma ho l’impressione che nella stragrande maggioranza dell’Italia (forse escludendo Lombardia, Veneto e Piemonte) le persone abbiano l'idea di potercela comunque fare, con un po’ di precauzioni.
Si sta perdendo un po’ di vista l’idea di approfittare di quest’esperienza per invocare un cambiamento radicale della politica e degli stili di vita; per cambiare il mondo, in poche parole. In queste ultime settimane c’è semplicemente voglia di tornare alla normalità, magari riadattandola alle nuove dinamiche. Questa, almeno, è la mia impressione.
Diciamo la verità, in alcune regioni questa malattia quasi non c’è (a parte qualche caso nelle residenze per anziani e negli ospedali). Ci sono delle restrizioni, alcune giuste e altre discutibili, però nelle persone si assiste solo a un po’ di fastidio.
Invece secondo me sarebbe urgente che le persone maturassero un sentimento di necessità di un altro mondo. Forse, paradossalmente, per cambiare ci voleva un’emergenza ancora più grave. Questo mi intristisce molto. Non c’è bisogno che muoiano le persone per capire che questo modello di sviluppo non funziona.
In questo periodo lei ha reso pubblico il suo numero di telefono e ha parlato con centinaia di persone. Quali sono i timori e le speranze che ha sentito raccontare più spesso?
Molti erano separati dai parenti o dalla fidanzata, quindi vivevano la strana sensazione di stare in un posto e avere gli affetti da un’altra parte. Qualcuno condivideva la paura della malattia, lo sgomento di fronte al fatto che non se ne sapeva molto (ma non se ne sa niente nemmeno adesso).
Ma c’era anche molta tensione (“ci è capitata questa sventura, proviamo a farne un buon uso”) che si è un po’ attenuata. Questo è il punto in cui ci troviamo adesso. Speriamo che nelle prossime settimane riemerga il tema sociale che mi sembra un po’ spento.
Di recente lei ha sollevato anche il problema di tutti quei musicisti, attori e artisti bravi, ma sconosciuti. Com'è possibile aiutarli?
Certo, si può immaginare un reddito di emergenza, ma da che punto in poi una persona può essere definita artista? È un po’ complicato.
In futuro gli artisti potrebbero trovare occupazione in due ambiti: la scuola e la sanità.
Io trovo assurdo che nelle scuole debbano andare solo gli insegnanti che hanno fatto un concorso. Gli alunni dovrebbero avere sempre un contatto con musicisti, poeti, attori. L’insegnante fa da cornice, i contenuti forti li devono portare direttamente le persone che lavorano su quelle cose.
Per quanto riguarda la sanità, gli artisti potrebbero andare a suonare o leggere nelle case di riposo o negli istituti psichiatrici, nell'ottica di far crescere la salute delle persone, non solo di combattere la malattia. È un’idea un po’ utopica, tanto più in Italia, ma lo dico perché ci credo. Serve un uso sociale dell’arte, non solo spettacolare.
Un’altra categoria un po’ “dimenticata” è quella dei bambini e dei ragazzi. Quali sono i punti deboli emersi in questo periodo e da dove dovrà ripartire la scuola?
Innanzitutto io sulle scuole avrei introdotto un criterio di differenziazione. A Milano o Roma non si possono tenere aperte, ma qual è il problema in un piccolo borgo dell’Appennino dove in una scuola ci sono sei bambini? Le misure non vanno necessariamente prese sulla base della zona più colpita, si possono anche differenziare a seconda del territorio.
Ho fatto il maestro elementare per tanti anni e credo che ci sia stata una sorta di superficialità. La scuola non conta per la politica, parliamoci chiaro. Così come i morti: i cimiteri sono stati chiusi, i funerali vietati.
Magari la gran parte delle scuole andava comunque chiusa, ma riaprire tutto a settembre mi sembra assurdo. Si potevano immaginare lezioni all’aperto a partire da maggio, o comunque forme alternative per mantenere un filo con questi ragazzi. La scuola è tante cose, non è solo andare in uno spazio chiuso a leggere e scrivere. C’è stata una carenza di immaginazione.