L'urlo delle foreste. Intervista a Giorgio Vacchiano
Il ricercatore Giorgio Vacchiano spiega le dinamiche dei disastrosi incendi in Australia e ci suggerisce i modi per renderci utili, nel nostro piccolo.
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©TEDxRovigo
L’estensione e la gravità degli incendi che stanno devastando le foreste australiane vanno al di là di ogni immaginazione. Finora sono stati ridotti in cenere oltre dieci milioni di ettari, 28 persone hanno perso la vita, migliaia di case sono state distrutte. In merito agli animali che sono rimasti uccisi, le stime sono ancora incerte.
Ma oltre a indignarci per un simile disastro e seguirne le evoluzioni con il fiato sospeso, c’è qualcosa che possiamo fare? Dobbiamo ritenerci in qualche misura responsabili e, se sì, come facciamo a rimediare?
L’abbiamo chiesto a Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano e appassionato divulgatore scientifico. Nel 2018 Nature l’ha scelto tra gli 11 migliori scienziati emergenti al mondo, dopo aver valutato cinquecento profili.
Da novembre possiamo scoprire qualcosa in più sul suo lavoro e sui suoi viaggi grazie al libro “La resilienza del bosco”, edito da Mondadori.
Sappiamo che in Australia è frequente che si verifichino incendi nelle foreste e sappiamo anche che la vegetazione di per sé è molto secca. Perché questa stagione è diversa rispetto alle altre?
I fattori che rendono questa stagione diversa da tutte le altre sono essenzialmente due.
Innanzitutto, l’Australia è un continente grande ed eterogeneo. Se parliamo dell’intero continente, è vero che gli incendi si verificano ogni anno: ci sono zone come l’Australia del Nord che bruciano normalmente senza subire conseguenze.
Ma quest’anno gli incendi non sono lì, sono soprattutto nel sud est, dove gli ecosistemi non bruciano così frequentemente. Sono state percorse dalle fiamme anche parti di boschi umidi o semi umidi che negli ultimi anni hanno subìto la siccità.
Il secondo fattore straordinario è la simultaneità di questi grandi incendi su una porzione molto ampia di territorio, cosa che ha messo in crisi anche i mezzi incaricati di estinguere le fiamme. Ciò è dovuto al fatto che da un paio d’anni ci sono determinate situazioni meteo che hanno portato siccità in tutta l’Australia. Di solito c’è una certa diversità tra le varie aree, mentre questa estate australe ha portato i fuochi a sincronizzarsi un po’ ovunque.
Negli Stati maggiormente coinvolti (Nuovo Galles del Sud, Australia del Sud, Victoria e Queensland) le superfici percorse dalle fiamme in questo momento sono superiori a quanto non sia mai stato registrato negli ultimi cinquant’anni, da quando sono iniziati i monitoraggi. Sono stati superati i 10 milioni di ettari.
Quanto contano i cambiamenti climatici e quanto conteranno in futuro?
Questo ce lo dicevano, già prima di questi incendi, i rapporti scientifici dell’IPCC e dei principali enti di ricerca australiani, incluso il governo. Avevano tutti ampiamente previsto che i cambiamenti climatici avrebbero portato a un aumento degli incendi in modo “virtualmente certo”, per riprendere i loro termini.
In particolare, è interessante vedere come hanno agito i cambiamenti climatici. Qualcuno si è stupito perché noi conosciamo il riscaldamento globale come effetto principale, cioè un aumento costante della temperatura in quasi tutti i luoghi della Terra. In realtà gli incendi non sono una diretta conseguenza delle alte temperature, perché l’autocombustione praticamente non esiste.
Gli incendi sono legati alla siccità, che equivale a caldo e secco. Questi ultimi due anni sono stati proprio così, caratterizzati da una quantità di piogge inferiore del 60% rispetto alla media dell’ultimo trentennio.
Predire l’effetto dei cambiamenti climatici sulle piogge è molto difficile perché, se guardiamo i dati globali, non assistiamo a una diminuzione costante. Piuttosto, aumentano le annate “estreme”: magari capita che un anno piova pochissimo e l’anno successivo piova tantissimo. Gli eventi estremi, in un senso o nell’altro, diventano più frequenti.
Ecco la ricetta che porta agli incendi: da un lato temperature sempre più calde, dall’altro annate secche. È molto probabile che le due cose coincidano: l’annata secca sarà tendenzialmente anche più calda. Di per sé, ripeto, l’aumento delle piogge non è in costante calo ma sale e scende, come un elettrocardiogramma; nelle annate in cui scende, è facile che si verifichino gli incendi.
Nel suo ultimo libro, “La resilienza delle piante”, lei parla delle foreste come ecosistemi vivi, che cambiano e si adattano alle nuove situazioni. Dobbiamo immaginarci che ci sia un futuro diverso – e magari migliore – anche per le foreste australiane?
Come scienziati, dobbiamo stare a guardare. In questo momento l’ampiezza del fenomeno degli incendi è relativamente nuova, se confrontata con il periodo in cui abbiamo potuto osservare queste dinamiche.
Non dubito del fatto che la vegetazione ritornerà. Di sicuro non accadrà nell’immediato, perché il fuoco sterilizza il suolo, l’humus si forma molto lentamente, i microrganismi faticano a tornare.
Probabilmente, in futuro la vegetazione sarà diversa da prima. Tutti i tipi di piante si sono evoluti in milioni di anni, imparando a fare i conti con un certo tipo di ambiente, di temperature, di pioggia, di fattori di disturbo (come appunto gli incendi) che hanno mantenuto a lungo caratteristiche simili.
Facciamo un esempio puramente ipotetico. Se in un certo territorio si verifica un incendio grave ogni cento anni, le piante si sono abituate, perché sono sopravvissute solo quelle più adatte a resistere.
C’è una cosa che però per il momento è ignota: cosa succede se aumenta la frequenza di questi fenomeni? Poniamo che per un milione di anni ci sia stato un incendio intenso ogni cent’anni e, nell’arco di una generazione umana, gli incendi inizino a verificarsi ogni cinquant’anni, o ogni trent’anni, tornando dove sono appena passati. Cosa succede? Forse in questo caso le piante non sono più così adattabili, perché noi umani abbiamo forzato le condizioni naturali.
Sappiamo che gli ecosistemi cambiano, ma come? Se sono attraversati di frequente dagli incendi, diventano popolati da piante che amano il fuoco. Il che significa per esempio che si riproducono molto bene, ricacciano dalla base dopo essere state danneggiate, hanno semi impermeabili.
Per la natura è un cambiamento. Per l’uomo potrebbe essere un problema, perché si trova circondato da un paesaggio infiammabile. Si rischia di creare un circolo vizioso in cui la vegetazione brucia sempre di più.
Cosa possiamo fare noi, che viviamo dall’altra parte del mondo, per essere davvero utili? Ci sono fattori che dipendono da noi?
Nell’immediato, è difficile dare un beneficio subito alle zone percorse da questa catastrofe. Certo, ci sono enti, società e ong che stanno avviando raccolte fondi.
Alcuni giardini zoologici stanno cercando di recuperare risorse per assistere gli animali feriti dalle fiamme o iniziare interventi di ripristino dell’habitat, soprattutto per quelle specie per cui si teme l’estinzione. Nell’isola dei canguri, per esempio, vivono diverse specie endemiche. Ora che il loro habitat è stato distrutto, anche gli esemplari sopravvissuti avranno difficoltà ad alimentarsi.
Ecco, ci sono diversi interventi di questo tipo che possono essere finanziati anche a distanza. Bisogna comunque fare attenzione, perché le iniziative che si moltiplicano sull’onda dell’emotività non sono tutte legittime e ben fatte.
Ma vorrei proporre un’altra provocazione. Partiamo dal presupposto per cui gran parte del problema è causato dal cambiamento climatico che è una responsabilità nostra, cioè di tutte le attività, le produzioni e i consumi che generano emissioni di CO2 in atmosfera.
Detto questo, invece di donare 50 euro per il ripristino della fauna in Australia – che è un’azione meritoria ma si esaurisce subito –, perché non cercare di impegnare la stessa cifra esercitando una leva maggiore sulla lotta ai cambiamenti climatici dappertutto?
Mi spiego meglio. Una delle responsabilità più grosse dei cambiamenti climatici è delle banche, dei fondi d’investimento e delle assicurazioni, cioè nei soggetti che usano i nostri soldi in attività pericolose per il Pianeta.
Perché, con la stessa passione con cui doniamo 50 euro per i koala, non ci informiamo sul modo in cui la nostra banca o assicurazione usa i 50mila euro che le diamo in affidamento? Perché non iniziamo a ragionare sull’ipotesi di sottrarre potere a chi economicamente ci mette davanti a queste situazioni di pericolo?
Questa scelta è anche vantaggiosa rispetto ad altre. Disinvestire da settori produttivi incompatibili con la salvaguardia del clima, infatti, spesso significa perdere posti di lavoro (come nel caso dell’Ilva). Al contrario, una holding finanziaria ha un portafoglio eterogeneo, che le permette di investire in qualcos’altro senza alcun problema. Non andiamo nemmeno a mettere in crisi la solidità di queste istituzioni, chiediamo loro soltanto di spostare il focus.