Una "maschera" imposta alle mucche per ridurre le emissioni
Al Terra Carta Design Lab è stata premiata Zelp, una museruola da far indossare alle mucche per ridurre le loro emissioni di metano. Ma sarà sufficiente per abbattere l'immenso impatto climatico dell'allevamento?
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Come funziona la museruola per mucche
Un premio conferito direttamente dal principe Carlo d’Inghilterra è, senza dubbio, una grande occasione di visibilità e prestigio. Ecco perché ha riscosso così tanta attenzione il Terra Carta Design Lab, un concorso che invita giovani ingegneri, designer, artisti, scrittori e ricercatori a elaborare un’idea originale per combattere i cambiamenti climatici.
Quattro i progetti che si sono aggiudicati il riconoscimento, insieme a un finanziamento da 50mila sterline e all’opportunità di lavorare fianco a fianco con sir Jonathan Ive, il progettista che ha disegnato dispositivi Apple come iPhone, iPad e AirPods.
Tra di loro c’è anche un dispositivo che non può non saltare all’occhio. Si chiama Zelp ed è una sorta di museruola che si fa indossare alle mucche. Senza interferire con le funzioni vitali e l’interazione con gli altri animali, la maschera contiene un catalizzatore che ossida il metano emesso dalle bestie, rilasciandolo nell’aria sotto forma di CO2 e vapore acqueo.
Così facendo, abbatte fino al 60 per cento le emissioni di metano, un gas che in atmosfera ha una vita più breve rispetto alla CO2 ma intrappola il calore 25 volte di più, contribuendo quindi in modo molto più incisivo ai cambiamenti climatici nel breve periodo. I dati sulle emissioni vengono monitorati direttamente da Zelp, che li trasmette a una app alla pari dei parametri sul benessere, sull’efficienza e sulla fertilità delle vacche.
Tutti i problemi che una maschera non risolve
Così facendo, Zelp promette di incidere in modo significativo sull’enorme impatto del settore agroalimentare sul riscaldamento globale. E, in parte, ci riesce: i dati sono eloquenti. Ma sarà abbastanza?
Senza la pretesa di dare una risposta, uno sguardo ai dati ci può aiutare quantomeno a orientarci. Attualmente, su un totale di poco meno di 50 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente emessi in atmosfera, la stragrande maggioranza (il 73,2%) è provocato dall’energia. Agricoltura e allevamento sono al secondo posto col 18,4%, seguiti (a distanza) dall’industria (5,2%) e dai rifiuti (3,2%).
Le emissioni di metano dovute al processo digestivo dei ruminanti, in particolar modo bovini e ovini, hanno un’incidenza del 5,8% sul totale. Parliamoci chiaro: in una situazione di piena crisi climatica, come quella che siamo ora, incidere su quel 5,8% può fare la differenza.
Che dire però di tutto il resto? Per far pascolare il bestiame bisogna sgomberare i terreni dalla vegetazione spontanea, impoverendo il suolo e limitando la sua capacità di sequestrare CO2. Vale lo stesso discorso per sfamarlo, perché servono coltivazioni sempre più vaste per riuscire a ricavare sia i mangimi vegetali, sia gli alimenti di cui si nutre una popolazione globale in costante crescita.
È quello che sta succedendo in Brasile, dove nel 2021 sono stati distrutti 1,5 milioni di ettari di foresta tropicale primaria, la più importante per la biodiversità e il sequestro della CO2. Un’area grande all’incirca quanto la Calabria, persa per sempre per lasciare spazio soprattutto a sterminate piantagioni di soia.
Ma è il nostro sistema alimentare che va ripensato
Che dire, poi, dell’acqua? È vero che il nostro pianeta è blu, perché è ricoperto da 1.400 milioni di miliardi di metri cubi d’acqua, ma è vero anche che solo lo 0,028% è a disposizione dell’uomo. Sul totale consumato ogni anno, circa il 70% viene sfruttato dall’agricoltura e dall’allevamento.
La carne bovina è la più esigente in assoluto: conteggiando l’acqua prelevata da corsi d’acqua e falde, quella piovana evaporata o traspirata dai campi coltivati e quella che serve per diluire e depurare gli scarichi idrici, arriviamo alla stratosferica stima di 15mila litri d’acqua necessari per portare nel piatto un solo chilo di manzo. Il pollame, che pure porta con sé le sue problematiche climatiche e ambientali, si ferma a 4.300 litri.
Questi sono soltanto pochi numeri, ma dovrebbero essere sufficienti a stimolare una riflessione. Ben vengano le innovazioni tecnologiche che intervengono in modo mirato su un singolo fattore che contribuisce alla crisi climatica. Questo, però, purché non diventino un alibi. Guardando la big picture, appare evidente quanto il nostro sistema alimentare, nel suo insieme, debba essere ripensato. E questa è una missione che non si può delegare a una museruola per mucche.