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Anoressia e bulimia: le frasi da dire e quelle da non dire mai a chi ne soffre

Il modo in cui comunichiamo con chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare può incidere nel rafforzare o, al contrario, smorzare dinamiche psicologiche legate al rapporto conflittuale con sé stessi e il proprio corpo. Un vademecum per adottare un linguaggio che aiuta.

di Redazione

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Quanto pesi ‘pesare’ certe parole o taluni commenti lo sanno bene coloro che soffrono di un disturbo alimentare. Rimproveri, giudizi, esortazioni, quando non addirittura lo scherno, fanno oscillare all’impazzata l’ago di un’altra bilancia, quella che non misura in chilogrammi la massa corporea ma che valuta, piuttosto, la gravosità di un malessere che risiede soprattutto nella psiche.

 

Anoressia, bulimia e binge eating disorder sono le principali manifestazioni dei Dca, i disturbi del comportamento alimentare. Le cause sono multifattoriali e la presa in carico dei pazienti riguarda un’equipe multidisciplinare di professionisti che include – oltra al nutrizionista, al cardiologo, l’endocrinologo e altri specialisti – uno psicologo o un altro esperto di salute mentale.

 

Quando una giovane o un giovane paziente intraprendono un percorso di cura (in Italia sono oltre 3 milioni le persone stimate soffrire di un Dca) l’approccio terapeutico coinvolge il nucleo famigliare e la sfera delle relazioni più intime proprio perché una salda guarigione passa (anche) dal supporto sano che genitori, amici e partner possono dare nel relazionarsi in un contesto di aiuto. Ne parliamo insieme a Emma Lerro, psicologa, psicoterapeuta e blog coordinator di Unobravo.com, servizio di psicologia online.

 

Come capire se una persona a noi vicina soffre di un disturbo alimentare?

“Si può osservare una non accettazione o valutazione eccessiva della forma del corpo, del peso e del loro controllo. Facciamo subito un distinguo: tutti noi possiamo provare insoddisfazione del nostro corpo o per alcune sue parti, chi più chi meno. Chi soffre di un Dca ne fa un aspetto centrale della propria vita e per la propria autostima: la valutazione del proprio corpo precede e limita sempre più altre aree di vita importanti come le relazioni sociali, la sfera professionale o le proprie passioni. La percepita capacità o incapacità di controllo condiziona ogni stima sul proprio valore.

 

La restrizione dietetica cognitiva ne è un esempio, ossia prevedere e stabilire cosa mangiare, quanto e quando, senza riferirsi a un bilanciamento di nutrienti per la propria salute. La capacità di attenersi o meno a tali regole auto-imposte sarà l’unità di misura della propria bravura.

 

Atteggiamenti come quelli sopra descritti possono accompagnarsi ad altri segnali che possiamo cogliere in chi ci è vicino:

  • Eccessiva attività fisica (come l’andare in palestra più volte al giorno), fare sport evitando le relazioni sociali e nonostante infortuni. L’allenamento è vissuto come attività compensatoria e in maniera ossessiva;
  • il pasto è giudicato come un’abbuffata, aumenta l’elenco di cibi proibiti e diminuiscono le occasioni di pasto condiviso con altre persone;
  • la persona si isola anche dopo aver consumato il pasto, probabilmente per eseguire condotte di eliminazione.

 

I Disturbi del comportamento alimentare si manifestano in qualsiasi tipo di corpo, è per cui limitante valutare l’insorgenza di una malattia dalla sola silhouette. Le variazioni repentine di peso, invece, possono essere un campanello d’allarme”.

 

Errori da non fare con chi soffre di anoressia, bulimia o disturbo da alimentazione incontrollata 

“Il momento del pasto è occasione di sofferenza. Motivo per cui chi soffre preferisce mangiare in solitudine per non essere notato o non ascoltare i commenti dei commensali. Favorire l’isolamento di queste persone mantiene lo status quo mentre il nostro obiettivo potrebbe essere quello di riportare il momento dei pasti a occasione di condivisione

  • Senza irrigidirsi e senza cercare il contrasto con la persona che soffre, poniamoci in una condizione di ascolto di ciò che sta provando: cerchiamo di entrare in empatia per evitare che l’altro si senta non capito e ci ritenga un nemico. Non pretendiamo immediatamente che si sieda a tavola con noi se questo provoca dolore.
  • Evitiamo di insistere affinché un paziente anoressico prenda peso, connettiamoci sulle emozioni, sulla sofferenza dell’altro prima che sull’alimentazione.
  • Evitiamo paragoni o altri tipi di confronti con fratelli o sorelle, amici o personalità note.
  • Evitiamo frasi sulla forza di "volontà che supera tutto", come se guarire da un Dca fosse una questione logica. Usare frasi come “non ti manca niente” oppure, “pensa a chi non ha da mangiare davvero” induce al senso di colpa. 
  • Evitiamo anche di foraggiare le pratiche disfunzionali: commentare positivamente la magrezza o la tenacia nella dieta è dannoso, come lo è qualunque commento sul corpo di questi pazienti.
  • Se un’amica o una figlia dice di sentirsi brutta non rispondiamole di getto dicendo che è bellissima: in questo modo invalidiamo il suo stato emotivo e non riconosciamo che per lei, in quel momento, quella condizione comporta sofferenza.
  • Dire “lo mangi davvero tutto?” oppure “ti deve piacere molto quel cibo”, ironizzare o commentare sulle preferenze a tavola è controproducente. 

 

A volte è difficile capire cosa possa far bene o far male nelle nostre parole, pur con le migliori intenzioni possiamo commettere errori inconsapevolmente. Non siamo troppo rigidi neanche verso noi stessi”.

 

Parole da usare con chi soffre di disturbi alimentari

“Un equivoco comune è pensare di dover dire la frase giusta, che spesso non c'è. Tendiamo a reagire a ciò che accade e a chi abbiamo di fronte ed è probabile che stiamo reagendo a come ci sentiamo noi, e non in sintonia con quanto sta accadendo a chi soffre. Di fronte a chi lotta con anoressia o bulimia troviamo anche noi il coraggio di fermarci, fare un respiro e accogliere l'emozione che stiamo sentendo. Riconoscere cosa proviamo ci aiuta a comprendere meglio e davvero la situazione. 

 

 

Di fronte a sfoghi come “Non voglio più mangiare” oppure, “Mi sento uno schifo” proviamo a indossare i panni del nostro interlocutore. “Dev’essere doloroso pensare questo” è una mano tesa verso la sofferenza dell’altro.

 

Non giudichiamo o sondiamo le possibili cause: I dca hanno origine multifattoriale e non è soltanto l’esposizione ai social network a influire sull’immaginario di bellezza: eventi stressanti possono incidere o divenire fattori precipitanti, il vissuto famigliare legato a malattie pregresse o anche una certa ‘diet culture’ vissuta in casa incidono, come un’indole perfezionista e un’autostima non salda

 

Anche un famigliare, un amico o un partner può rivolgersi a uno psicologo per imparare a gestire il proprio ruolo, che non deve essere determinato dalla colpa, ma al contrario dalla possibilità di diventare noi stessi risorsa.