Tra arte e natura. Il giardino botanico Fondazione André Heller
A Gardone Riviera, immerso nella vegetazione tipicamente mediterranea del paesaggio del lago di Garda, c’è un luogo unico: il giardino botanico Fondazione André Heller.
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A Gardone Riviera, immerso nella vegetazione tipicamente mediterranea del paesaggio del lago di Garda, c’è un luogo unico. Un’oasi di 10mila metri quadrati che ospita piante da ogni parte del mondo, opere d’arte di Keith Haring, Roy Lichtenstein, Mimmo Paladino e altri nomi illustri, e simboli di religioni e culture differenti.
Fondato agli inizi del Novecento dal dentista e botanico austriaco A. Hruska, dagli anni Settanta è aperto al pubblico e dal 1988 è di proprietà dell’artista – anch’egli austriaco – André Heller. A gestirlo ora è l’omonima fondazione. La direttrice, Graziella Belli, ci racconta qualcosa di più sulla sua mission e sui tesori che custodisce.
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Qual è la mission del giardino botanico Fondazione André Heller?
La mission del giardino è quella di coniugare la natura con l’arte. Il proprietario, un famosissimo artista austriaco, l’ha acquistato 32 anni fa con l’intenzione di restituirlo al suo splendore originale. Trattandosi appunto di un artista, lo ha voluto arricchire con numerose opere d’arte.
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Può citare qualche specie botanica particolarmente caratteristica?
C’è l’Osmunda regalis L., una felce gigante i cui rami superano il metro e mezzo di altezza; la Metasequoia glyptostroboides, anche detta abete d’acqua. Le nostre caratteristiche sono i boschetti di bambù; e poi chiaramente i fiori, ce ne sono oltre 3mila varietà. Abbiamo otto laghetti collegati tra loro attraverso piccoli ruscelli, fondamentali anche per l’irrigazione. Il fondatore, il dottor Hruska, ha voluto creare tre collinette rocciose e le ha ribattezzate “Cime di Lavaredo”.
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Al netto del Covid-19, quante persone visitano il giardino ogni anno? Sono più italiani o stranieri?
Prima del Covid-19 eravamo nell’ordine dei 31-33mila visitatori, ora siamo circa alla metà. Da poco però abbiamo riaperto. Prima arrivavano qui austriaci, tedeschi, inglesi, americani, australiani; ora invece sono soprattutto italiani che durante il lockdown hanno riscoperto il valore dei giardini. A differenza di altre attività, non abbiamo la possibilità di risparmiare sui costi. I giardinieri devono lavorare, le serre devono essere riscaldate, altrimenti le piante muoiono.
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Come vi siete organizzati durante il lockdown?
Siamo rimasti chiusi a lungo. Il nostro è un giardino molto particolare in cui tutti i lavori vanno eseguiti a mano, non possiamo far entrare ruspe e trattori. A intervalli regolari ripuliamo, togliamo alcune piante, rivediamo delle zone. Un tempo per esempio su una collinetta rocciosa c’erano le stelle alpine, ora invece non ce ne parla nemmeno perché il clima è completamente cambiato. Ogni anno piantiamo circa 20-30mila bulbi. Quest’anno ne sono nati dei bellissimi tulipani; visto che il pubblico non ne poteva godere, li abbiamo donati agli ospedali e alle case di riposo.
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Di quali attività vi state occupando in questi mesi?
Ora abbiamo riaperto e ci occupiamo, in parallelo, della manutenzione ordinaria. Anche per via di una scarsa cultura del verde, molti – soprattutto in Italia – fanno fatica a capire che, dietro il costo del biglietto, ci sono operazioni continue molto delicate.
Ogni giorno cinque o sei giardinieri irrigano a mano, percorrendo vialetti strettissimi e in discesa. Per fare un esempio tra tanti, nella zona dei bambù sembra di essere in Indocina grazie a un impianto che emette vapore; gli ugelli di quell’impianto vanno tolti e sostituiti di frequente.
Usiamo anticrittogamici biologici e riutilizziamo il materiale che il giardino ci fornisce; quando una tempesta ha abbattuto alcuni alberi, per esempio, ne abbiamo ricavato i tavoli del chiostro. Insomma, facciamo il possibile per preservare l’ecosistema.
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