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Anche il caffè ha un impatto sull'ambiente

Anche la nostra quotidiana tazzina di caffè ha un impatto ambientale, anzi, ne ha diversi. Scopriamo quali sono e come abbatterli.

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Per noi italiani, una tazzina di caffè non è mai “solo” una tazzina di caffè. È una scusa per scambiare due chiacchiere con un amico o un collega, una presenza fissa sul tavolo della colazione, una sorta di rito sociale. Qualsiasi nostra azione, però, ha un impatto sull’ambiente: e anche questa non fa eccezione. Vediamo quindi in cosa consiste l’impatto ambientale del caffè e cosa possiamo fare per ridurlo al minimo.

 

Capsule e cialde: come smaltirle?

Nel 2021 AstraRicerche ha condotto un sondaggio sul tema. Il 97% degli intervistati dichiara di consumare, almeno saltuariamente, caffè o bevande a base di caffè; il 72,5% lo ritiene uno dei piaceri della vita, mentre il 75% un punto di forza del Made in Italy. Dopo la pandemia i nostri connazionali hanno riscoperto il piacere di incontrarsi al bar, ma ciò non toglie che 57 caffè su 100 siano consumati tra le mura domestiche.

 

Capsule e cialde ormai sono il metodo di preparazione preferito, conquistandosi il 43% delle preferenze (+3,6% rispetto al 2020) e battendo quindi la classica moka, in calo del 5,7% in un anno. Qui ci si imbatte nel primo, grande problema ambientale: lo smaltimento dei rifiuti.

 

Bisogna innanzitutto fare una distinzione: 

  • le cialde ormai sono quasi tutte compostabili o biodegradabili e possono quindi essere smaltite nella frazione umida dei rifiuti;
  • le capsule, al contrario, sono fatte di plastica o di alluminio. Ciò significa che si possono lavare o smontare, oppure portate all’isola ecologica, o ancora riportate in quei negozi che si fanno carico dello smaltimento. Se buttate frettolosamente nell’indifferenziato, finiscono per riempire le discariche.

 

L’inquinamento da caffeina nelle acque

Nonostante la crescente popolarità di capsule e cialde, più di un italiano su tre resta affezionato alla moka; per la precisione, il 31,5%. Questa viene ritenuta la soluzione più economica e anche più ecologica, considerato che il problema dello smaltimento apparentemente non si pone. Ma siamo sicuri che sia così?

 

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Pnas mette in bilico questa nostra illusoria certezza. Gli studiosi hanno monitorato 1.052 siti di campionamento su 258 fiumi in 104 Stati, rappresentando dunque un’area dove vivono 471,4 milioni di persone.

 

Andando alla ricerca di contaminazioni da sostanze farmaceutiche, ne hanno trovate tre con una concentrazione ben maggiore rispetto alle altre: carbamazepina (una molecola anticonvulsivante), metformina (un antidiabetico) e caffeina. Esatto, proprio quella sostanza che è naturalmente presente nel caffè e gli conferisce quelle doti stimolanti che tanto apprezziamo.

 

Questo accade anche perché c’è l’abitudine di buttare nel lavello la polvere di caffè rimasta nel filtro della moka. I moderni sistemi di depurazione riescono a filtrare la stragrande maggioranza dei residui presenti nell’acqua, ma non tutti. Poi c’è quel 5% che non viene metabolizzato dall’organismo ma espulso con le urine. Si tratta di percentuali minime che però, moltiplicate per migliaia e migliaia di volte, assumono un peso considerevole. 

 

Il problema sta nel fatto che la caffeina si bioaccumula nelle microalghe, nei pesci, nei coralli e nei molluschi, con varie ripercussioni tra cui stress ossidativo, neurotossicità, disturbi riproduttivi e metabolici. In alcuni casi può portare alla loro morte.

 

Questo è un ottimo motivo per ricordarsi sempre di buttare la polvere di caffè nella frazione umida dei rifiuti: c’è anche chi lo usa come fertilizzante, ma solo per le piante che prediligono terreni acidi (tra cui azalee, camelie, frutti di bosco, basilico) oppure per le verdure a foglia larga.

 

Il contributo alla deforestazione

Finora abbiamo parlato di post-consumo, ma anche risalendo all’inizio della filiera produttiva il caffè può avere un impatto ambientale considerevole. Ad accendere i riflettori su questo tema è un recente report del Wwf che si intitola “Quanta foresta avete mangiato, usato o indossato oggi?”.

 

La foresta amazzonica infatti viene distrutta soprattutto per ricavare legname e per fare spazio alle coltivazioni di beni agroalimentari che vengono per la maggior parte esportati. A conti fatti, dunque, i consumi dell’Unione europea sono responsabili del 10% della deforestazione globale. 

 

Tra questi beni agroalimentari c’è anche il caffè: oggi nel mondo si producono 169 milioni di sacchi all’anno, di cui 96 milioni di Arabica e 73 di Robusta. L’80% di questa enorme quantità di caffè è frutto del lavoro di 20 milioni di piccoli produttori, spesso in condizioni di povertà: su un giro d’affari complessivo di oltre 100 miliardi di dollari all’anno, infatti, a loro spettano soltanto le briciole.

 

Ma c’è di più: per soddisfare la domanda globale in crescita, la produzione di caffè dovrà triplicare entro il 2050. E il 60 per cento dell’area idonea è oggi coperta da foreste.

 

Di per sé, abbattere gli alberi non sarebbe obbligatorio: nella coltivazione tradizionale, al contrario, gli alberi fanno ombra alle piante di caffè, con un approccio di agroforestazione. Negli ultimi decenni però le coltivazioni sono state spostate in pieno sole e gestite con le moderne tecniche agroindustriali. Sacrificando così la biodiversità nel nome di una resa maggiore.

 

Come fare, dunque, per non contribuire – anche involontariamente – a un sistema produttivo che calpesta i diritti dei lavoratori e dell’ambiente? Un buon compromesso è quello di scegliere i marchi Fair Trade, perché garantiscono la tracciabilità del prodotto e un equo compenso ai coltivatori.