Per una "Dichiarazione universale dei diritti delle piante”: abbiamo intervistato Alessandra Viola
Secondo la giornalista Alessandra Viola è giunta l’ora di firmare una “Dichiarazione universale dei diritti delle piante” che riconosca come soggetti da difendere e tutelare gli esseri viventi che appartengono al regno vegetale. Ne va della nostra stessa sopravvivenza.
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Dove stavamo guardando finora per non esserci mai accorti che loro erano lì, che sono sempre state e lì resteranno, sopravvivendo a noi e ai nostri sforzi di dominio antropocentrico?
Dove avevamo la testa per non trovare le parole in grado di riconoscere alle piante i loro, inalienabili, diritti? Al saggio di Alessandra Viola, Flower Power (Passaggi Einaudi, 2020), si giunge come inciampando, perché la riflessione sui diritti del regno vegetale spunta come una radice di ippocastano dal marciapiede e ti fa perdere l’equilibrio mentre persegui "le magnifiche sorti e progressive".
“I diritti esprimono il pensiero della società che li riconosce ma sono anche strumento generativo, punto di riferimento ideale al quale spontaneamente, col tempo, la società tende ad avvicinarsi” spiega l’autrice del testo che per primo in Italia (e nel mondo) mette le basi per
la stesura di una Dichiarazione universale dei diritti delle piante. I diritti, in breve, sono meta e sono scopo e l’applicazione di una Carta come strumento normativo e di riferimento ideale si fa strada là dove la naturale relazione uomo-ambiente nella nostra società ha perso quell’originario legame di fratellanza.
Alessandra Viola, giornalista scientifica e scrittrice impegnata nel riconoscimento dei diritti della natura nelle Costituzioni in diversi Paesi nel mondo, è certa che firmare un patto con l’ambiente sia indispensabile per affrontare emergenze globali come il consumo di suolo, lo spreco di cibo, lo sfruttamento delle risorse naturali dell’agricoltura industriale.
Combattiamo contro una popolazione silenziosa e pacifica, Lei scrive. Quali sono le guerre in cui esseri umani e piante sono nemici? Quale responsabilità del singolo cittadino?
Abbiamo riconosciuto che la diffusione della pandemia Covid, come ogni altra pandemia, sia nata proprio da una violazione dei diritti delle piante: quando deforestiamo alteriamo ecosistemi in cui questi virus vivono in equilibrio con la loro specifica fauna locale. La nostra vicinanza fisica ad ambienti selvatici favorisce queste forme di contagio.
Studi in corso, ad esempio, stanno cercando di appurare quale sia il ruolo delle piante nel proteggerci dai virus in quanto barriera e filtro per la profusione di patogeni. Il meccanismo potrebbe essere simile all’azione a noi più familiare delle piante anti-smog: le piante, filtrando l’aria attraverso le foglie e la respirazione vegetale, catturano le particelle volatili che trasportano virus.
Nelle città, una delle guerre che combattiamo contro le piante è il consumo di suolo. Strappiamo alla natura porzioni di terra, porzioni sulle quali crescere ed evolversi liberamente, recando danno anche a noi stessi: stare in mezzo alle piante fa bene alla nostra vita: al sistema nervoso, alla pressione, favorisce la concentrazione e ripulisce l'aria, importante per la vita urbana. Se gestissimo meglio le strade, le piante - pompe formidabili - ci eviterebbero gli allagamenti. Ma abbiamo chiuso ogni buco, agli alberi abbiamo lasciato solo decimetri intorno alla loro circonferenza togliendo alla natura la capacità di riprodursi in modo naturale.
Contro questa guerra i singoli cittadini possono essere esempi positivi: in tante città ci si organizza per adottare aiuole, piantare semi dove possibile. Io da tempo ho preso l’abitudine di raccogliere i semi degli alberi che trovo per strada, se ne trovano in tutte le stagioni. Li raccolgo e li pianto in terrazzo: quest’azione ha sempre bilancio positivo, si conosce il proprio territorio, si favorisce lo sviluppo di piante autoctone, si dà fiducia alla natura.
Perché parlare di diritti delle piante? Le attuali leggi non bastano?
Il riconoscimento come soggetto giuridico delle acque del fiume Whanganui, considerato sacro dalle tribù Maori della Nuova Zelanda, si inserisce in un filone di ricerca di diritto ambientale mondiale. Il riconoscimento dei diritti a ecosistemi, fiumi, ghiacciai o foreste è uno strumento che sta funzionando più che non la tutela attraverso leggi. Il diritto ambientale si è dimostrato in pratica efficace perché le leggi spesso non sono servite.
Ecuador e Bolivia hanno inserito i diritti della Madre Terra nelle loro Costituzioni e anche il fiume Vilcabamba ha vinto la sua prima causa in tribunale contro chi lo ha inquinato, in quanto soggetto avente diritti.
Perché, allora, non i diritti delle piante? Circa il 90% del mondo naturale è fatto da piante. Se riconosciamo che gli uomini hanno diritti, chi dice che anche piante e animali non ne debbano avere? La natura è un insieme troppo generico per essere difeso.
La domanda, ad esempio, è “piante e animali soffrono?” Gli animali sì, ma in modo diverso, così come anche gli uomini tra loro. La sofferenza è un meccanismo evolutivo legato alla difesa. Ora, la pianta non potendosi spostare si difende in altro modo: emettendo sostanze sgradite, mandando segnali nell'organismo quando ha ricevuto un morso.
Non sappiamo con certezza se una pianta soffra e non sapendolo, secondo il diritto ambientale, andrebbe applicato il principio di precauzione. Già nella convenzione di Rio si sosteneva di evitare di adottare azioni che mettano a rischio altri esseri viventi. Sto lavorando con l’Hearth law center per la stesura della carta diritti delle piante che potrebbe fare parte di un ordinamento che il Cile si sta dando. Mi dispiaccio perché in Italia potremmo essere i primi a farlo a costo zero. Potremmo ancora una volta essere l'avanguardia nel mondo. Noi siamo la patria del diritto romano.
Nella nostra costituzione invece la natura è intesa solo come tutela del paesaggio: bello sì, ma questo approccio sottintende che si tratti ancora di un oggetto.
Perché non sappiamo chiamare l’Arno o il Po fratelli, le Dolomiti sorelle?
Secondo me la spiegazione è che nei Paesi occidentali la rivoluzione scientifica ha favorito lo studio del quantificabile e misurabile, sostenendo uno straordinario sviluppo tecnologico. Però forse ci siamo persi un'altra fetta della conoscenza del mondo fatta di elementi sottili del rapporto uomo-natura.
I popoli nativi hanno un rapporto diverso con la natura, si sentono parte di una unica famiglia naturale. Noi abbiamo iniziato a sentire di dover dominare la natura oggettivandola, ma questo modello – anche economico – sta rivelando la sua fragilità: Sono l’aria, il sole, l’acqua le vere produttrici di ricchezze sul pianeta. Lo sono le piante.
Cos’è, in estrema sintesi, una pianta?
La pianta è un essere vivente diverso da come lo abbiamo immaginato, cioè come un oggetto. Questo oggetto nei sistemi giuridici europei è una proprietà e quindi ciascuno può farne ciò che vuole. Invece siamo di fronte a un essere vivente straordinario dotato di almeno 15 sensi che noi non abbiamo (sente la gravità, l'umidità, i campi elettromagnetici…), trasmette messaggi, ha una vita sociale di cui abbiamo studiato pratiche di accudimento parentale.
Le piante cooperano e competono fino anche a essere feroci nella difesa del territorio. Ci sono specie che vanno d'accordo tra di loro, questo lo si sapeva già in antichità ma sono conoscenze per noi perse. Le piante imparano e ricordano quanto hanno imparato. Ci sono esperimenti interessanti su questo aspetto.
La Carta che Lei propone contiene 8 articoli. Quale il più urgente?
Mi preme dire che dobbiamo pensare alle piante come soggetti. Abbiamo già sperimentato che questo avviene un po’ per volta. Riconosciuti in maniera chiara altri diritti, come quelli delle donne, sappiamo che la strada è lunga e che spesso, nei fatti, ciò non avviene ancora.
Con le piante deve succedere qualcosa del genere: le leggi e i comportamenti si adegueranno ai cambiamenti di prospettiva in maniera quasi automatica ma i diritti esprimono il pensiero della società che li riconosce. Ci vuole progetto.
Al momento insieme ad alcune associazioni stiamo lavorando per presentare al ministro dell’Ambiente Sergio Costa un documento che nel suo primo articolo definisce i diritti delle piante. Le ricadute di questa consapevolezza riguardano diversi ambiti della vita pratica e del sapere, dalla corretta manutenzione del verde pubblico alle scelte di consumo del cittadino.