Altri voli con le nuvole. Intervista a Nicola Magrin
Nicola Magrin è in libreria con “Altri voli con le nuvole” (Salani editore), un racconto pittorico che fa viaggiare con l’immaginazione, dalle Alpi all’Himalaya. L'artista monzese ci racconta com’è nato questo suo progetto e com’è stato accolto.
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©Nicola Magrin
Gli appassionati di narrativa di montagna e d’avventura sicuramente hanno in casa qualche opera di Nicola Magrin. L’artista monzese, classe 1978, per Tea ha firmato le copertine di Tiziano Terzani e per Einaudi quelle di Jack London, Primo Levi, Robert Macfarlane, del suo amico fraterno Paolo Cognetti.
I suoi acquerelli, così evocativi e istintivi, trasmettono un legame con la natura che lui stesso si porta dentro. Quel legame che ogni estate lo spinge a lasciare Monza, dove ha sede il suo atelier, e trasferirsi in una baita a 1.700 metri, per vivere una quotidianità semplice e spartana. O ad avventurarsi alla scoperta di luoghi remoti, dall’Alaska al Nepal; spinto non dall’ebbrezza della conquista, ma da un profondo rispetto per la natura e i suoi ritmi.
Da poco Magrin è in libreria con “Altri voli con le nuvole” (Salani editore), un racconto pittorico che segna il suo percorso di crescita come uomo e come artista e ci fa viaggiare con l’immaginazione, dalle Alpi all’Himalaya. Gli abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato questo suo progetto e com’è stato accolto.
“Altri voli con le nuvole”, che raffigura grandi spazi, è nato durante il primo lockdown. Come l’hai vissuto?
Premettendo che non mi sono ammalato né si sono ammalate le persone a me vicine, ero sereno e stavo bene. C’erano giornate di sole incredibili, ero a casa da solo con la mia cagnolona e volevo sfruttare al meglio quel periodo di grande solitudine, non sapendo quanto sarebbe durato. Da anni volevo creare un libro mio ma sentivo che non era ancora il momento giusto. Avevo già prestato i miei acquerelli ad autori come Federico Rampini, Folco Terzani, Ester Armanino ed era un buon inizio, al di là di tutto il mio lavoro per l’editoria, con le copertine che avevo realizzato in questi dieci anni. Durante il primo lockdown, ho deciso che era arrivata l’ora di fare qualcosa di mio.
Non avevo il problema di cosa dipingere, perché mi viene spontaneo, bensì di cosa raccontare. Non volevo assolutamente produrre un catalogo d’arte, composto da tanti quadri belli ma slegati tra loro. Allora, quando è successa questa “magia” per cui mi sentivo carico ed energico e volevo evadere con la fantasia, mi sono messo a dipingere con grande naturalezza e in modo molto istintivo.
Cosa hai dipinto?
Ho diviso il libro in quattro argomenti: anima, avventura, amicizia e radici. Sono quattro storie unite tra loro. Lasciandomi trasportare dai ricordi, e da quest’esigenza di un verde che dalla mia casa in città non potevo vedere, mi sono subito venuti in mente questi quattro momenti della vita. Come spinto da una voce interna, che forse era sopita da anni, sapevo che era di questo che volevo parlare.
“Anima” è il viaggio in Himalaya ed era Tiziano Terzani. “Amicizia” è il viaggio che feci prima del Covid-19 con Paolo Cognetti in Alaska alla ricerca del magic bus, dov’era morto Christopher McCandless. Poi ci sono le “Radici” che per me sono importantissime: le Alpi, la mia baita e l’amico che mi ha insegnato tutto ciò che so su come vivere l’alpeggio.
Poi l’“Avventura”, cioè l’incontro con i lupi avvenuto nel 2012 quando ero in Canada con il mio amico Gianni Bianchi. È stato uno dei momenti più forti della mia vita. Eravamo da soli su un lago ghiacciato e ci siamo trovati un branco di lupi a dieci metri di distanza. È stata una scena da film che ricorderò per tutta la vita, ed è il motivo per cui ho iniziato a dipingerla.
I quadri nascono perché per me dipingere è come respirare. Dopo aver vissuto l’incontro con i lupi, io, che non avevo mai raffigurato nemmeno un cane in vita mia, ho iniziato a dipingerli. Devo dire che mi ha portato fortuna, perché poi ho realizzato la copertina de “Il richiamo della foresta” di Jack London per Einaudi e l’ho illustrato per le edizioni Nuages.
Amo molto la fotografia, ma non sarebbe stata la stessa cosa se avessi preso un libro fotografico di National Geographic e avessi riprodotto le immagini. In tal caso sarebbe mancata quell’emozione che conosco solamente io. È il motivo per cui passo tre mesi all’anno in baita in alta Valmalenco, sopra Sondrio. Vivere la montagna in modo così spartano è ciò che mi permette di mettere certe emozioni nei miei quadri. Le persone che li guardano capiscono che non è soltanto una bella immagine ma c’è dell’altro.
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Questo approccio è stato capito dai tuoi lettori?
Per ora è stata la sorpresa più bella. C’è sempre molta paura quando nasce un nuovo progetto: chi già conosce il mio lavoro lo capirà, oppure lo scambierà per qualcos’altro? Stando ai messaggi che mi sono arrivati in queste prime due settimane, i lettori sono andati oltre. Alcuni mi hanno detto che lo si può anche aprire a metà e andare a ritroso, ma la storia si capisce comunque e resta dentro.
Questo mi fa davvero piacere perché per l’Italia questo libro è qualcosa di nuovo: non è una graphic novel, non è un libro muto, non è un fumetto. Ora che è uscito e viene capito dalle persone, sono rincuorato e credo di aver trovato una nuova strada da percorrere.
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La montagna spesso viene vissuta come conquista. Nel 2019, l’ultima estate prima del Covid, centinaia di scalatori erano in coda per salire in cima all’Everest, con tutto ciò che ne consegue per l’ecosistema. Tu invece ti sei avventurato con Paolo Cognetti nell’Himalaya, ma “senza mai arrivare in cima”, per riprendere il titolo del suo libro. Che differenza c’è tra scoperta e conquista?
Parto sempre dalla conoscenza di me stesso e dei miei limiti, e da un grande senso di rispetto in primis per me stesso e poi per la natura che mi circonda. Ogni anno vivo l’estate in questa baita a 1.700 metri, senza alcuna pretesa di eremitaggio né di conquista. Per carattere ho anche molto timore della montagna, avendola vissuta fin da bambino e avendo fatto qualche viaggio avventuroso. Per come sono fatto io, stare a 1.600 metri, sedersi su un sasso e guardare la cima imbiancata ha la stessa potenza di pestare i piedi sulla cima e scattarsi un selfie.
Nell’Himalaya io e Paolo Cognetti siamo partiti da una pianura più bassa, con un clima caldo e umido, e siamo arrivati a toccare la neve avvicinandoci alle cime. Ho ancora nella memoria queste notti in cui dormivo poco, a causa dell’altitudine unita alla stanchezza, uscivo dalla tenda copertissimo perché c’erano 15 gradi sotto zero, e restavo incantato dalle cime che si stagliavano nel cielo stellato, tutte attorno alla nostra tendina gialla. In quel momento mi dicevo: “Ma io mi accontento di questo, non voglio andare oltre”. “Accontentarsi” è un termine che in italiano suona un po’ male, sembra quasi un “vorrei ma non posso”. Invece no, accontentarsi è la cosa più bella: godi di quello che hai raggiunto con le tue forze, fisiche e mentali.
Nei tre viaggi con Paolo, due in Nepal e uno in Alaska, ho capito quanto fa la mente. Fisicamente non siamo degli atleti ma, anche laddove non arriva il fisico, la mente è serena e il cuore batte bene perché è felice. A quel punto sono felice, non voglio altro. Più tardi tornerò nella mia città e riuscirò a esternare questo vissuto con i miei colori, i miei pigmenti naturali, i miei acquerelli. Sarà tutto più pulito perché avrò avuto il tempo di far sedimentare le emozioni più forti, riuscendo a ricavarne quell’essenza che può arrivare a chiunque, senza bisogno di tante parole.
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Un libro illustrato chiede al suo lettore di immergersi nelle immagini, di interpretarle, di farle proprie. In questo senso, che aspettative avevi quando hai iniziato a lavorarci?
Quando è nato il libro e ho voluto approfondire questi quattro momenti, che poi sono i momenti che mi hanno fatto diventare l’uomo che sono, sono andato avanti con la parte pittorica. Poi, l’estate scorsa, ho disposto sul pavimento del mio atelier tutti gli acquerelli come se fossero un patchwork e mi sono reso conto del fatto che la storia c’era, eccome se c’era.
Mancava però un filo rosso. Non volevo scrivere un romanzo e non volevo nemmeno arrivare alla fine del libro e spiegare ciò che avevo dipinto con un testo di tre cartelle. Che senso avrebbe avuto? Avevo già raccontato tutto con le immagini.
Amando molto la cultura orientale, ho immaginato una sorta di lungo haiku giapponese. Volevo un testo asciutto, minimo, che pareggiasse la poesia dei quadri senza suonare prolisso e noioso. L’ho scritto in baita, l’estate scorsa, e poi ho asciugato ciò che era ridondante, come uno scultore che toglie e toglie fino ad arrivare all’essenza. Il risultato è questo testo semplicissimo ma pulito, essenziale, che non vuole dire di più rispetto al quadro ma è fondamentale per la musicalità del libro.
Devo molto alla casa editrice Salani, e alla sua direttrice editoriale Mariagrazia Mazzitelli, per lo splendido lavoro di impaginazione e scelta dei materiali. Tutti i quadri sono sulle pagine di destra; su quelle di sinistra c’è una frase o, in alternativa, soltanto il silenzio. Un silenzio che rappresenta un momento di sospensione che ha la stessa valenza del quadro o della frase.
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Ultimamente c’è una grande attenzione alla natura, anche per il fatto che la stiamo distruggendo con le nostre mani. Che opere consiglieresti a chi vuole avvicinarsi, anche solo con la mente, al wilderness?
È vero, ne sono consapevole e noto questa riscoperta della natura anche nelle montagne intorno alla mia baita. Mi fa molto piacere vedere tanti giovani, che sono stati molto penalizzati dai due lockdown. Si percepisce tanto questa voglia di stare all’aperto.
Ci sono alcune letture che riprendo in mano ogni anno, a maggio, quando la neve si scioglie e torno alla mia baita. È una piccola casa in legno e pietra, uno scrigno di emozioni e di ritmi completamente diversi da quelli della città. In un appartamento ci sono il gas e l’acqua calda, lì invece ho una vecchia stufa di legno con cui mi scaldo e cucino, un pannello solare, un boiler a legna per l’acqua calda, le candele e tanti libri. Lì tutto, anche solo farsi un caffè, diventa un rituale. Questo mi affascina molto.
Appena giro la chiave della mia baita, rileggo sempre qualcosa di Mario Rigoni Stern. Nel suo “Arboreto salvatico” trovo sempre qualcosa di diverso, perché c’è tutta la saggezza di un uomo che ha vissuto veramente. Mi capita lo stesso con Tiziano Terzani. I suoi diari postumi, “Un’idea di destino”, sono stupendi perché sono pensieri spontanei, non sono stati corretti mille volte per essere pubblicati sui giornali.
In questi giorni sto rileggendo anche “Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano”, di Chandra Candiani. C’è una frase che dice che “una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura”. La meraviglia si può trovare ovunque, in città o in un bosco.