Slow News: meno è meglio. Intervista ad Alberto Puliafito
Intervista a uno dei co-fondatori del sito Slow News. Alberto Puliafito ci racconta cosa sta dietro al concetto dello slow journalism.
Slow News non è solo un sito di approfondimento ma un concetto di giornalismo più “lento” e per questo diverso dal giornalismo “fast”. Un giornalismo più sostenibile e disponibile a prendersi i propri tempi. Di questo abbiamo parlato con Alberto Puliafito, uno dei co-fondatori.
Cos’è Slow News e come nasce?
Slow News nasce come idea nel 2014 da un gruppo di giornalisti con varie esperienze alle spalle in quello che possiamo definire il “vecchio” giornalismo. Non dico “vecchio” in senso dispregiativo: è solo per fare capire la risposta che il giornalismo tradizionale ha dato alla rivoluzione digitale.
Che tipo di risposta?
Seguendo la logica “tanti pezzi in poco tempo”. Io all’epoca ero direttore di una testata online che pubblicava fino a 800 articoli al giorno. Non avevo nemmeno il tempo di controllarli e rileggerli.
Così io e altri colleghi semplicemente abbiamo pensato che quel meccanismo non poteva più funzionare, se non a scapito della qualità e dell’accuratezza della notizia.
E così vi è venuta l’idea di raccontare le notizie in una chiave più “slow”?
In quel periodo stavo leggendo un saggio di Peter Laufer in cui si parlava proprio di Slow News. Quel concetto mi folgorò. Così scrissi a Laufer e lui mi rispose.
Da lì abbiamo avviato uno scambio che mi ha spinto a voler fare giornalismo in modo differente. Abbiamo iniziato a pubblicare le prime storie nel 2015: approfondimenti di notizie che possano durare nel tempo, in modo da differenziarci da quelle breaking news riportate tutte uguali su tante testate senza aggiungere nulla.
Per fare notizie più approfondite ci vuole più tempo. Come si sostiene economicamente questo tipo di modello?
Lo Slow Journalism richiede un suo modello di business, è chiaro. E noi abbiamo scelto di tenere separate le notizie dalla pubblicità. Noi mettiamo al centro lettrici e lettori.
Sono loro i nostri “editori”: chiediamo a chiunque abbia la possibilità di pagare per leggere ma ognuno può farlo secondo le proprie possibilità. In questo modo evitiamo che questo tipo di scelta diventi classista.
E poi partecipiamo a bandi e proponiamo corsi di Slow Journalism ai colleghi di settore.
Direi che sta funzionando, no?
Siamo lontani dalla piena sostenibilità economica, nel senso che i nostri giornalisti e collaboratori hanno anche altre attività remunerative. Ma pian piano le entrate stanno incrementando.
Da quando abbiamo sostituito il prezzo fisso lasciando libero il costo dell'abbonamento abbiamo raddoppiato le entrate: a volte si scoprono delle dinamiche strane!
E su quale base decidete il tariffario dei collaboratori?
Noi chiediamo sempre a chi ci propone un articolo di dirci anche quanto vale il suo pezzo. Se dicono 20 euro, non è quello che cerchiamo.
Noi pubblichiamo pochi pezzi ma devono essere pienamente soddisfacenti per chi legge. Non diamo scadenze strette a chi collabora: pubblichiamo quando il pezzo è pronto. Solo così riusciamo a mantenere uno standard elevato di informazione.
Qual è il parere dei vostri lettori?
Il nostro obiettivo è far sentire le persone parte del progetto. A differenza dei giornalisti onniscienti, che scrivono di tanti argomenti diversi e che sanno un po’ di tutto, noi abbiamo preferito scendere da quel pulpito – che spesso ci siamo creati da soli – per tornare a dare al giornalismo più un senso di “servizio”.
Siamo riusciti a creare dei rapporti costruttivi con i lettori: abbiamo coinvolto diverse volte specialisti ed esperti che ci hanno aiutato a completare i nostri pezzi, altri che ci mandano segnalazioni via email. Alla base di tutto, insomma, c’è un grande coinvolgimento.