Le contraddizioni di Eni: tra bond sostenibili e trivelle
Eni batte sul tempo gli altri colossi petroliferi, lanciando la sua prima obbligazione sostenibile. Ma siamo sicuri che il piano industriale sia altrettanto verde e lungimirante?
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Il bond sostenibile di Eni
I bond, o obbligazioni, sono strumenti finanziari con cui bene o male abbiamo preso confidenza. Un’azienda li emette quando vuole raccogliere liquidità; gli acquirenti forniscono questa liquidità e, a una certa scadenza, vengono rimborsati del capitale investito più una quota di interesse (o cedola).
Un sustainability-linked bond, però, è diverso. Perché l’azienda ha esplicitato i propri obiettivi ambientali, sociali ed economici (Esg) e collega l’ammontare della cedola ai risultati raggiunti. In altre parole, se fallisce paga di più.
Per la prima volta in assoluto, a lanciare un sustainability-linked bond è un’azienda del comparto oil&gas. Si tratta dell’italiana Eni che il 7 giugno ha collocato con successo un’obbligazione a sette anni da un miliardo di euro.
Così facendo, Eni porta anche sui mercati finanziari le sue roboanti promesse in materia di sostenibilità. La multinazionale promette di decarbonizzare i prodotti e i processi entro il 2050, raggiungere l’eccellenza operativa e promuovere lo sviluppo dei Paesi in cui opera, facendosi guidare dai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.
Eni nel mirino degli ambientalisti
Sulla coerenza di Eni, però, alcuni gruppi ambientalisti esprimono un certo scetticismo. È il caso dei Fridays for future, i giovanissimi ispirati da Greta Thunberg che hanno manifestato in tutt’Italia il 12 maggio, giorno dell’assemblea degli azionisti tenuta online e a porte chiuse.
“Nelle sue pubblicità si presenta come un’azienda green e al fianco delle persone ma nei territori in cui è attiva ha devastato ecosistemi e compromesso la salute delle persone che li abitano, basti pensare al Delta del Niger o, senza andare troppo lontano, alla Val d’Agri o a Gela”, affermano tramite una nota.
Gli agguerriti studenti sono scesi in piazza soprattutto in quei luoghi dove Eni sta portando avanti progetti ritenuti tutt’altro che green. Come Licata, dove ha ottenuto il via libera per perforare il giacimento di metano Lince a una trentina di chilometri dalla costa.
Oppure Stagno, sede della raffineria da convertire in bio-raffineria; un prefisso che, stando ad alcuni gruppi particolarmente critici, è più apparenza che sostanza perché può essere conferito anche a chi si limita a produrre un additivo a partire da oli esausti o di palma. O ancora a Presenzano, in provincia di Caserta, dove è prevista la costruzione della centrale Turbogas fra le proteste dei residenti.
L’impatto ambientale di Eni: un po’ di numeri
Non usa mezzi termini Greenpeace, che ha coniato lo slogan “le bugie hanno le zampe corte”. L’organizzazione ambientalista fa sapere che nel 2018 Eni è stata la prima azienda in Italia per emissioni di CO2, con 537 milioni di tonnellate; più di quelle dell’Italia nel suo insieme che si ferma a 428.
Una responsabilità non da poco, considerato che il suo maggiore azionista è lo Stato attraverso il ministero dell’Economia e delle finanze (4,37%) e Cassa depositi e prestiti (25,96%).
Merian Research ha passato al setaccio i risultati 2020 e il piano strategico 2021-2024 per conto di Fondazione Finanza Etica, Greenpeace Italia e ReCommon. Quello che emerge non è confortante. Nel breve periodo, tra il 2021 e il 2024, Eni ha in programma addirittura di incrementare le estrazioni di gas e petrolio a un ritmo medio del 4% all’anno (più del 3,5% previsto dal piano precedente).
Sempre per il periodo 2021-2024, il Capex (capitale di investimento) sarà di 28 miliardi, di cui 18 destinati a gas e petrolio. Quel 20% di investimenti catalogati come “green” include anche progetti controversi come le bioraffinerie. Insomma, la comunicazione ha preso una direzione chiara. Sulla sostanza, però, è lecito nutrire qualche dubbio.