The Willow project: Biden viola l'accordo di Parigi
L’approvazione del Willow Project, l’immenso progetto di trivellazioni petrolifere in Alaska, è un duro colpo per la strategia climatica degli Stati Uniti e per la credibilità del presidente Joe Biden.
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Willow project: un progetto di trivellazione senza precedenti
Fino a 250 pozzi petroliferi, 60 chilometri di strade, oltre 620 chilometri di oleodotti, un impianto di trattamento. Questo è quanto prevede The Willow Project, in Alaska. Un gigantesco progetto petrolifero sul quale si è scatenato, comprensibilmente, un polverone. Perché è stato approvato da Joe Biden, il presidente in carica degli Stati Uniti, che – almeno a parole – ha sempre promesso di affrontare l’emergenza climatica.
Per la precisione, il Willow Project sorgerà nella National Petroleum Reserve in Alaska, un’area di proprietà del governo federale in Alaska, oltre 300 km a nord del Circolo Polare Artico. Nei suoi trent’anni di vita stimata, produrrà 576 milioni di barili di petrolio, per una media di 160mila al giorno (180mila nei periodi di picco). Numeri che lo rendono uno dei più grandi progetti estrattivi sul suolo americano. Sarà gestito dal colosso petrolifero ConocoPhillips.
Le promesse, non mantenute, di Biden in campagna elettorale
Quando Biden ha approvato il Willow Project, era pienamente consapevole di mettersi contro gran parte del proprio elettorato. Tant’è che, nelle ore precedenti, aveva promesso di impedire qualsiasi futura trivellazione nell’Oceano Artico e di rendere più severe le norme per la tutela dell’Alaska.
Queste misure, però, non sono certo sufficienti per placare le polemiche. Perché la verità è che Joe Biden si è conquistato la presidenza degli Stati Uniti anche per la sua scelta di porsi in netta contrapposizione con il suo predecessore di Donald Trump, iniziando a dare il giusto peso all’azione per il clima.
Stando al suo programma di governo, gli Stati Uniti dovrebbero riuscire a ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra del 50-52% rispetto ai livelli del 2005, già entro il 2030. Per poi azzerare le emissioni nette entro il 2050. Ma il condizionale è d’obbligo, soprattutto dopo l’approvazione del Willow Project.
L'accordo di Parigi
E dire che, con un gesto dal fortissimo valore simbolico, durante il suo primo giorno alla Casa Bianca Joe Biden aveva firmato l’ordine esecutivo volto a riportare gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sul clima, dopo l’abbandono voluto da Trump. Un iter che si è concluso formalmente circa un mese dopo.
Ora, dunque, anche gli Stati Uniti si sono impegnati formalmente, di fronte alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatica (Unfccc) e alla comunità internazionale, a mantenere l’aumento della temperature media globale “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi” entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali, facendo tutto il possibile “per tentare di non superare gli 1,5 gradi”.
Sempre nell’ambito del trattato internazionale, anche gli Stati Uniti sono tenuti a presentare – e aggiornare periodicamente – le proprie promesse di riduzione delle emissioni di gas serra, chiamate NDC (Nationally Determined Contributions), sottoponendole alla valutazione indipendente dell’Unfccc.
Trivellazioni, combustibili fossili e CO2
In questo quadro, estrarre combustibili fossili non ha tecnicamente senso. L’Agenzia Internazionale per l’Energia ha infatti messo a punto una dettagliatissima tabella di marcia che spiega come è possibile azzerare le emissioni nette entro il 2050, il che darebbe quanto meno una possibilità di contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi centigradi nel lungo periodo.
Gli esperti sono chiarissimi. Il settore energetico è la chiave di volta per raggiungere questo obiettivo, essendo responsabile di circa tre quarti delle attuali emissioni di gas a effetto serra. Gli impegni che gli Stati si sono assunti fino ad oggi sono largamente insufficienti, perché corrispondono a 22 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 ancora in atmosfera nel 2050. Cioè a un incremento della temperatura di 2,1 gradi centigradi nel 2100.
Per invertire realmente la rotta, e scongiurare questa catastrofe climatica, il peso dell’energia eolica, solare, geotermica, idraulica e della bioenergia deve rapidamente aumentare fino a generare i due terzi dell’approvvigionamento energetico globale nel 2050.
Di conseguenza, “oltre ai progetti già autorizzati fino al 2021, la presente strategia non prevede l'autorizzazione per lo sviluppo di nuovi giacimenti petroliferi e di gas, né la realizzazione di nuove miniere di carbone o l'ampliamento di quelle esistenti”.
Al di là delle loro conseguenze sul clima, peraltro, i danni delle trivellazioni all’ambiente sono comprovati: inquinamento del territorio circostante, rischio di incidenti, necessità di costruire strade e infrastrutture, interruzione dell’equilibrio dell’ecosistema.
Le conseguenze del Willow Project
Le conseguenze del Willow Project sul clima saranno letteralmente catastrofiche. Heated, un’autorevole newsletter dedicata al riscaldamento globale, mette in fila i dati principali.
Nell’arco dei suoi trent’anni di vita utile stimata, il progetto provocherà 263 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. In pratica, sarà come aver costruito venti nuove centrali a gas naturale e averle tenute in funzione per lo stesso periodo; oppure, sarà come aver bruciato quasi 4 milioni di tonnellate di carbone ogni anno per trent’anni; oppure come aver messo in circolazione 1,7 milioni di automobili con motore a scoppio.
Nel frattempo, l’amministrazione a stelle e strisce si è impegnata a costruire sul suolo e sulle acque federali una serie di impianti capaci di produrre 25 di energia solare, eolica e geotermica entro il 2025 e 30 gigawatt di energia eolica offshore entro il 2030. Così facendo, eviterebbe l’emissione in atmosfera di 129 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2030. Un risultato che verrebbe del tutto vanificato dal Willow Project.
Le ragioni politiche
Il via libera alle trivelle da parte di Joe Biden ha scatenato l’indignazione dei cittadini – mentre scriviamo questo articolo, sono più di 4,7 milioni quelli che hanno firmato una petizione su Change.org – e delle organizzazioni ambientaliste.
Greenpeace parla di una “bomba climatica” e di un “tradimento nei confronti del pianeta e delle persone”. “Non possiamo trivellare la nostra strada verso un futuro sostenibile. Dobbiamo conservare le terre pubbliche, non svenderle alle multinazionali che inquinano”, sostiene Ben Jealous, direttore esecutivo del Sierra Club. Per Raena Garcia di Friends of the Earth, “forzare un massiccio progetto di disastro climatico in una regione già afflitta dai cambiamenti climatici è a dir poco tragico per il pianeta e le comunità dell'Alaska”.
Se è vero dunque che il fronte dell’opposizione è strenuo, è vero anche che ci sono parecchie voci favorevoli. A cominciare dalle compagnie petrolifere, molto influenti sulla politica a stelle e strisce attraverso le loro lobby. Anche i sindacati e una parte dei residenti dell’Alaska (incluse le comunità indigene) trovano allettante la possibilità di generare circa 2.500 posti di lavoro e 17 miliardi di dollari di entrate per il governo federale.
La segretaria all’Interno Deb Haaland ha provato a smorzare le polemiche sostenendo che il potere decisionale dell’amministrazione in carica fosse “limitato”, perché il tema è stato “ereditato” da quella precedente. Ciò non toglie che la credibilità di Joe Biden ne uscirà inevitabilmente compromessa. Così come la strategia climatica degli Stati Uniti.