Milano Chiaravalle: nuova vita ai terreni grazie all'agroforestazione
Soulfood Forestfarms Hub Italia ha una missione ambiziosa: proporre un nuovo modello alimentare in cui le aree coltivate siano anche boschive e i cittadini abbiano un ruolo attivo. Si parte dal parco della Vettabbia di Milano, linea di congiunzione tra città e la campagna.
Credit foto
©Soulfood Forestfarms Hub Italia
Raramente viene descritta in questi termini, ma Milano è la seconda città agricola d’Italia, con una superficie coltivata di 2.910 ettari su un’estensione complessiva di 18.175. Riscoprire e valorizzare questa vocazione rurale può essere la chiave di volta per quel futuro sostenibile di cui si sente un così profondo bisogno.
C’è anche chi propone di farlo attraverso un approccio che è al tempo stesso nuovo e antico. Si chiama agroforestazione e rifiuta la dicotomia tra le aree boschive e quelle coltivate. Al contrario, prevede di creare “giardini-foreste” in cui piante di diverso tipo (incluse quelle commestibili) convivono e si proteggono a vicenda, mantenendo fertile il terreno. Tutto questo senza fare uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, ma soltanto di metodi naturali e basso impatto come la pacciamatura.
C’è di più: a prendersi cura di questi terreni sono i cittadini che, per qualche ora alla settimana, dismettono i panni di lavoratori e studenti e indossano quelli di farmer. Instaurando così un rapporto profondo, intimo, con le piante che generano il loro cibo.
Questo è l’approccio con cui il progetto Soulfoods Forestfarms, sostenuto da un’ampia coalizione di realtà pubbliche, private e del terzo settore, sta recuperando alcuni ettari di terreni pubblici nel Parco agricolo della Vettabbia. Una zona dalle enormi potenzialità anche per la sua particolare collocazione a metà strada tra città e campagna; a nord lambisce il quartiere Corvetto, a sud l’Abbazia di Chiaravalle. A raccontarci meglio quest’iniziativa è Alessandro di Donna, fondatore di Soulfood Forestfarms Hub Italia.
Da quanto tempo ti occupi di agroforestazione e perché?
Mi sono approcciato al mondo della permacultura nel 2014. Dopodiché ho fatto un corso nel 2016 con Ernst Götsch, il fondatore dell’agricoltura sintropica, e da lì sono nate diverse cose. Ernst è una persona che ha folgorato molti cuori, perché ha tanta competenza e tanta esperienza, oltre alla capacità di applicare i princìpi dell’agricoltura naturale all’ottica produttiva; lui stesso infatti è un agricoltore che si sostiene con la vendita del cacao che coltiva in Brasile.
Come hai deciso di portare questo approccio a Milano?
L’agricoltura sintropica è stata sviluppata ai climi tropicali; alle nostre latitudini è praticata appena da 7-8 anni, quindi non disponiamo ancora di dati altrettanto consolidati. Però abbiamo pubblicazioni che ci dimostrano che questo approccio funziona, sia in termini di qualità sia in termini di resa. Allora mi sono detto: capiamo se è possibile farlo qui, a Milano.
Così si è creata una rete di persone che hanno progetti in tutt’Europa. Non abbiamo certezze, ma abbiamo voglia di sperimentare e muoverci verso sistemi complessi in termini di densità di piante, varietà di specie e di prodotti che possono essere ottenuti in un unico appezzamento. E venduti, garantendo anche la sostenibilità economica.
Quali sono le caratteristiche principali di questo approccio?
Questa pratica riduce al minimo gli input esterni come acqua e fertilizzanti ma, per contro, richiede un grande apporto in termini di manodopera e conoscenza.
Il tema della gestione di questi sistemi complessi è ancora abbastanza inesplorato perché finora non abbiamo avuto grossi investimenti che consentissero, per esempio, di elaborare macchinari adatti. Negli ultimi sessant’anni la meccanizzazione in agricoltura ha tolto moltissimo lavoro manuale, indirizzandosi però sulla dimensione dell’agroindustria. Non è così semplice trovare chi investa nella meccanizzazione applicata a sistemi complessi e biodiversi.
In Brasile, invece, fianco a fianco con l’agroindustria che consuma agrotossici come se fossero acqua, ci sono anche progetti innovativi nei quali i privati e le organizzazioni si sono attivati per sperimentare nuove soluzioni. In Italia al momento si sta facendo molto poco.
Il progetto di Milano vuole colmare questo vuoto?
Quello di Milano è un progetto “vetrina” ma al tempo stesso molto concreto, con un grande potenziale in termini di visibilità. Fare qualcosa che funziona in un contesto simile ci dà l’opportunità di collaborare con le istituzioni e con le università. Oggi qui c’erano cinquanta ragazzi da tutt’Europa. Questa per noi è una ricchezza, perché abbiamo a che fare con tante persone che vedono con i loro occhi che esiste un’altra possibilità.
Cos’è Soulfood Forestfarms Hub Italia?
Questo progetto è un’impresa sociale e un’associazione. L’associazione lavora per il momento con un piccolo bando del Comune di Milano, “La scuola dei quartieri”, che si focalizza sulla filiera avicola attraverso l’adozione di una gallina. L’impresa sociale invece si rivolge alle aziende che, mai come ora, sono interessate a dimostrare il proprio impegno in campo ambientale. Noi rispondiamo a quest’esigenza attraverso attività che abbiano un senso e siano radicate nel territorio.
L’università di Milano è già impegnata a monitorare i servizi ecosistemici e culturali di questo progetto, anche attraverso questionari rivolti alla cittadinanza. Ci tengo in particolare a citare la collaborazione con la professoressa Alice Giulia Dal Borgo del corso di laurea in Scienze umane dell'ambiente, del territorio e del paesaggio.
Qual è il messaggio che volete trasmettere?
La nostra filosofia più alta è quella di cambiare il modo di produzione del cibo e farlo nel Parco agricolo sud di Milano, uno dei più grandi d’Italia. Tutto questo in una città che ha una food policy importante, ritenuta un modello in tutt’Europa (seppure con qualche difficoltà a diventare concreta).
Dopodiché vogliamo costruire progettazioni a livello europeo, soprattutto legandoci alla Pac. L’agroforetazione è ancora abbastanza snobbata e invece secondo noi merita molta più attenzione nelle politiche comunitarie perché unisce due mondi che non si sono parlati per secoli: il bosco e l'agricoltura. Più, nel nostro caso, la forestazione urbana.
Oggi assistiamo a campagne di forestazione in cui non è ben chiaro dove si pianteranno i boschi, chi li gestirà e come diventeranno sostenibili a livello economico. In parallelo, abbiamo un patrimonio agricolo totalmente non valorizzato. L’agroforestazione unisce queste due componenti. C’è chi si mette in bocca tante belle parole; noi preferiamo portare il cittadino nel campo in cui si costruisce un progetto a lungo termine, un sistema che funziona e crea reddito e valore. È questo il cambio di paradigma.
Come avete coinvolto i milanesi?
Per nostra natura, ci viene molto spontaneo. Arriviamo da Cascinet, che aveva già creato una community di persone impegnate in attività un po’ diverse da quelle che si fanno di solito a Milano. Man mano hanno aderito anche le associazioni. Al di là dei singoli eventi, c’è chi ci tiene a dare una mano in modo continuativo: abbiamo quindi creato un gruppo Whatsapp e ci diamo appuntamento ogni lunedì mattina. Milano è un posto unico perché ci consente di fare un’esperienza diversa rispetto all’orticello urbano o al mettere a dimora l’albero.
Qual è l’aspetto che viene più apprezzato dalle persone?
Le piante comunicano. Quando le posizioni in un certo modo e in un certo ruolo, ti restituiscono un feedback che ti permette di imparare. Oltretutto, con un progetto come il nostro l’interazione con la materia vegetale è molto più dinamica, perché un conto è togliere le erbacce da una coltivazione di cavoli, un conto è toglierle da filari con una densità molto alta di piante diverse tra loro. È questo che secondo me stimola.
Noi non coltiviamo le piante per renderli dipendenti dall’uomo; al contrario, cerchiamo di interpretare le loro funzioni e inserirle in uno schema in cui hanno una loro autonomia. In natura l’equilibrio è dinamico, non esistono cose che funzionano in un certo modo per sempre. E noi possiamo interpretare determinati fenomeni, non controllarli.
Noi non piantiamo una specie perché vogliamo venderne i frutti, ma perché nell’ecosistema ha un ruolo. Se tu parti con questa intenzione e la mantieni nel tempo, con il tempo la natura ti restituisce ciò che le hai dato. Non è immediato, ma gradualmente si passa a un sistema di abbondanza. Noi vorremmo poi sviluppare il nostro approccio (anche produttivo) nel modo più diretto possibile, con le persone che vengono qui nel campo, si prendono i loro prodotti, li pesano e così via. Ci sembra un approccio ecologico ed etico.
Ci puoi anticipare qualcosa del progetto Adotta una gallina?
Per "Adotta una gallina" stiamo iniziando un percorso formativo finanziato dalla Scuola dei quartieri, un bando del comune di Milano. Vorremmo creare una rete con altri soggetti, perché il tema dell’uovo e della gallina è fortemente simbolico e ci piacerebbe elevarlo di livello, declinandolo anche sull’aspetto artistico, teatrale, storico, culturale e così via, anche per avvicinare un pubblico più ampio.
Vorremmo creare una piccola comunità che, invece di acquistare l’uovo al supermercato, adotti una gallina, le dia da mangiare e se ne prenda cura nel tempo. Tra estate e autunno abbiamo intenzione di svolgere un piccolo test per poi passare alla raccolta fondi, magari mediante crowdfunding civico. La nostra sfida è quella di indovinare una formula che sia solida in termini di business model. Certo, potremmo anche rivolgerci all’upper class vendendo l’uovo a un prezzo più alto, ma non è quello l’intento. Ci teniamo a consolidare una comunità viva, fatta di persone che vengono a trovare le galline e, così facendo, presidiano il campo.