Norme per riparazione e riuso dei prodotti: l'Italia arranca
Perché buttare via uno smartphone guasto o un mobile scheggiato, quando potrebbero trovare una seconda vita? Il diritto al riuso e alla riparazione è un pilastro dell’economia circolare. Ma su questo fronte le normative italiane sono ancora carenti.
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Il tassello mancante per l’economia circolare
Riduci, ricicla, riusa, ripara. Sono le quattro parole d’ordine dell’economia circolare, l’approccio indicato all’unanimità come la soluzione per creare valore senza depredare le limitate risorse della natura, già fortemente sotto pressione.
L’economia circolare non è un sogno da ferventi ambientalisti bensì un pilastro del Green Deal europeo, il piano di transizione verde per rendere l'Unione europea climaticamente neutra entro il 2050. Un progetto da mille miliardi di euro, su cui la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha incentrato il proprio mandato.
Il nuovo piano d’azione per l’economia circolare adottato a marzo 2020 contiene una serie di misure per “trasformare il modo in cui i prodotti sono fabbricati e consentire ai consumatori di effettuare scelte sostenibili a proprio vantaggio e a beneficio dell'ambiente”, ha dichiarato Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo responsabile per il Green Deal europeo.
Perché questi princìpi vengano messi in pratica, però, serve un’architettura fatta di normative mirate e precise. Normative che, nel nostro Paese, stanno arrivando alla spicciolata. E in forte ritardo.
Un vuoto normativo sulla seconda vita dei prodotti
Facendo un passo indietro nel tempo, infatti, troviamo il decreto legislativo 205 del 3 dicembre 2010 con cui l’Italia attua la direttiva 2008/98/CE sui rifiuti. Il testo stabilisce una precisa gerarchia nella gestione dei rifiuti:
- Prevenzione;
- preparazione per il riutilizzo;
- riciclaggio;
- recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia;
- smaltimento.
L’incenerimento o la discarica, dunque, sono l’ultima spiaggia. Ma anche il riciclaggio, in realtà, non va considerato come l’opzione ottimale in assoluto: meglio ancora è evitare che un prodotto diventi rifiuto, anche facendo in modo che venga riparato e riutilizzato.
In teoria i decreti attuativi sulla cosiddetta “preparazione per il riutilizzo” dovevano arrivare entro sei mesi. Sono passati dieci anni e ancora non ce n’è traccia, denuncia una recente interrogazione parlamentare dell’onorevole Ilaria Fontana.
In altre parole, mancano procedure standard che definiscano l’iter con cui un oggetto obsoleto o guasto (un computer, un mobile, una bicicletta) può essere smontato, riparato o trasformato in qualcos’altro, per poi essere rimesso sul mercato.
Spesso ci sono le capacità tecniche per eseguire queste operazioni, spiega un editoriale pubblicato dal Fatto Quotidiano, ma ci si imbatte in un dedalo di vincoli burocratici che non le rendono convenienti in termini di tempo e denaro.
Il diritto al riuso e alla riparazione
Come ricordato, l’Europa sta lavorando in questa direzione. Sempre nell’ambito del piano d’azione per l’economia circolare, il 25 novembre 2020 il Parlamento ha adottato una risoluzione che chiede alla Commissione di assicurare ai cittadini il “diritto alla riparazione”.
Ciò significa rendere le riparazioni “più accessibili, sistematiche e vantaggiose, ad esempio estendendo la garanzia sulle parti di ricambio o garantendo un migliore accesso alle informazioni su riparazione e manutenzione”. E ancora, sostenere il mercato della seconda mano, contrastare l’obsolescenza programmata, introdurre un caricabatterie universale, etichettare i prodotti sulla base della loro vita utile.
Va nella stessa direzione un progetto di legge italiano, presentato da Ilaria Fontana, che si muove su diverse direzioni:
- Promuovere il riuso, cioè la “seconda vita” di un bene, magari datato ma ancora integro e funzionante, per la stessa finalità per cui era stato concepito.
- Semplificare gli obblighi di legge sui centri specializzati nelle riparazioni.
- Introdurre sgravi fiscali per chi partecipa a programmi comunali legati alla riduzione dei rifiuti, oppure al riutilizzo e alla riparazione dei beni.
- Destinare incentivi a chi ripara o ricondiziona i dispositivi.
- Condividere le buone pratiche di riparazione.
Un’economia tutt’altro che “di seconda mano”
Agevolare il riuso e la riparazione significa anche dare linfa a professionisti e piccole e medie imprese; dal falegname al centro di assistenza per smartphone, dal mercatino vintage alla sartoria.
Già nel 2019, nonostante le varie criticità di carattere normativo, la compravendita dell’usato in Italia ha generato un giro d’affari pari a 24 miliardi di euro, l’1,3% del Pil. Se questo valore cresce del 33% nell’arco di cinque anni è merito soprattutto delle piattaforme digitali, dove si sono svolte transazioni per 10,5 miliardi di euro nel 2019. Lo rivela la sesta edizione dell’Osservatorio Second Hand Economy condotto da BVA Doxa per Subito.it.
Quest’attitudine travalica i confini tra le generazioni. A rivolgersi più spesso al mercato dell’usato sono infatti le giovani famiglie (75%) e i ragazzi tra i 18 e i 24 anni (69%), ma anche nella fascia di età 55-64 anni oltre 6 italiani su 10 hanno comprato o venduto un oggetto di seconda mano.
L’Europa, insomma, ci ha indicato una direzione ben chiara. Gli italiani si stanno mostrando pronti e hanno solo da guadagnarci, sia in termini ambientali sia in termini monetari. C’è da sperare che anche la politica risponda all’appello.