A Natale? Evitiamo gli sprechi e preferiamo la sobrietà. Intervista a Luca Mercalli
Possiamo vivere pienamente il nostro Natale anche evitando gli sprechi e abbracciando quella sobrietà di cui il nostro Pianeta ha bisogno. Parola di Luca Mercalli, meteorologo e divulgatore scientifico.
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©Cirone-Musi, Festival della Scienza / Wikimedia Commons
Anche a livello puramente economico, l’inverno del 2021 non è dei più rosei. La pandemia non molla la presa, con il suo strascico di difficoltà per diversi settori; si avvicina lo sblocco dei licenziamenti; l’inflazione galoppa e i rincari delle bollette erodono la tredicesima. Eppure, i nostri connazionali proprio non vogliono rinunciare ai regali di Natale. L’Ufficio Studi Confcommercio parla di una spesa media di 158 euro a testa. Il calo rispetto al 2009 è notevole (-36%), ma rispetto ad allora ci sono due grosse novità: il Black Friday (divenuto Black Week e poi Black Month), che ha nettamente anticipato i tempi per circa un italiano su due, e la definitiva consacrazione dell’e-commerce, scelto da sette italiani su dieci.
Certo, le foto delle affollatissime vie dello shopping stridono con gli scenari quasi apocalittici prospettati alla Cop26, la Conferenza sul clima di Glasgow. È giusto farsi recapitare a casa ogni giorno pacchi e pacchetti a bordo di un camion, se l’assoluta necessità è ridurre le emissioni di gas serra al più presto? E che fine faranno i cumuli di rifiuti, eredità dei nostri luculliani pranzi di Natale? Il nostro pianeta si può permettere tutti questi consumi?
L’abbiamo chiesto a qualcuno che, da tempi non sospetti, si fa portavoce – a parole e coi fatti – di un valore che a prima vista potrebbe sembrare démodé ma non è mai stato così attuale: la sobrietà. Stiamo parlando di Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana, direttore della rivista Nimbus e appassionato divulgatore. Tra i suoi ultimi libri, particolarmente adatti al periodo che stiamo vivendo, “Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali” (Einaudi, 2018) e “Il clima che cambia. Perché il riscaldamento globale è un problema vero, e come fare per fermarlo” (Bur, 2019).
Tra Black Friday e Natale, queste settimane sono all’insegna del consumismo più sfrenato. Quali sono gli acquisti insostenibili per definizione?
Come sempre, questo è il periodo dell’anno in cui si compra pur di comprare, senza riflettere sul danno ambientale che c’è dietro a ogni oggetto. Qualsiasi cosa crea un danno ambientale, anche il cibo che mangiamo. Ma un conto è il necessario, un conto è il superfluo.
Mi viene in mente la fast fashion, cioè tutti quegli abiti che siamo spinti a comprare pur non avendone davvero bisogno. Questi vestiti hanno un costo fatto di petrolio (perché talora sono sintetici), acqua, energia, trasporti… eppure si indossano un paio di volte e poi si buttano via. Un buon abito invece può durare anni, addirittura decenni. Se vogliamo raggiungere la sostenibilità, dobbiamo riflettere su questi condizionamenti della pubblicità e del consumismo. Condizionamenti che non hanno nessun senso. Un abito dev’essere bello, gradevole, funzionale, ma non c’è motivo di buttarlo perché qualcuno ci convince a sostituirlo con un altro che dopo qualche mese farà la stessa fine.
Di recente è uscito per Einaudi un libro molto interessante. Si intitola “Lavorare con i piedi. Ciò che le tue scarpe stanno facendo al mondo”, è stato scritto da Tansy E. Hoskins e svela quanti miliardi di scarpe finiscono in discarica ogni anno, creando montagne di rifiuti difficilmente riciclabili, visto che sono fatte di plastica oppure di un mix di materiali.
Poi ci sono tante altre cose che creano danni indiretti, come gli imballaggi. La nostra abitudine di incartare i regali in modo vistoso genera una quantità di rifiuti spaventosa, ed è tutta evitabile. Sarebbe anche il momento di uscire da questa sorta di infantilismo: come umanità abbiamo di fronte un problema enorme, pazienza se i bambini non ricevono la sorpresa impacchettata con fiocchi e carte plastificate luccicanti! Quello è tutto materiale problematico, che non si ricicla e finirà probabilmente nell’inceneritore, generando gas a effetto serra. E dura lo spazio di un minuto. Nulla ci vieta di impacchettare i regali con i giornali vecchi o altra carta di riciclo.
Come ci si arriva a promuovere una maggiore sobrietà?
Io la predico da trent’anni, quasi mi viene la tentazione di dire che ci rinuncio! È un approccio che viene capito da una persona su cento. In futuro, quando le cose andranno veramente male e i governi finalmente ne prenderanno atto, alla sobrietà ci si arriverà con le tasse. Si imporrà una tassa e la gente, toccata sul portafoglio, si dovrà adeguare. E, magari, non incarterà i regali perché costerà troppo. Quello metterà d’accordo tutti. Purtroppo, la cultura è lentissima da diffondere.
Questi peraltro non sono problemi di oggi, si conoscevano già perfettamente negli anni Ottanta. Eppure non li abbiamo mai affrontati e il risultato è l’emergenza climatica e ambientale che viviamo oggi. I danni sono enormi e vistosi. La plastica è ovunque, ce la stiamo mangiando perché i pesci ne sono pieni, cade – sotto forma di microfibre – nella pioggia e nella neve portata dal vento in tutti i posti del pianeta, anche quelli più lontani.
Se non vogliamo trasformare il pianeta in una discarica, con tutto ciò che ne consegue per i nostri figli e i nostri nipoti, dobbiamo tagliare da qualche parte. E allora dico: tagliamo le cose superflue che non determinano la nostra qualità della vita, per difendere quelle necessarie.
Il principale indicatore del benessere economico è il Pil, un Pil che premia i consumi in quanto tali, senza distinguere tra quelli che fanno del bene e quelli che lo distruggono. Come superare questo paradosso?
Certo, e infatti il Pil è un indicatore sbagliato. Questo lo dicono anche alcuni economisti che non sono mai stati ascoltati come Giorgiò Fuà che ne parlava già negli anni Settanta e Ottanta. Il Pil non è un indicatore corretto perché conteggia anche i danni come vantaggi. Servirebbe un cambiamento del modello economico che misuri non il Pil ma il benessere, che è una cosa ben diversa. Il fatto è che le leggi fisiche non aspettano i nostri cambiamenti culturali. Noi abbiamo una disperata urgenza di affrontare questi problemi in tempi brevissimi. La Cop26 di Glasgow, pur avendo ottenuto ben poco, ha sancito chiaramente la necessità di ridurre del 45% le emissioni entro il 2030. Abbiamo a disposizione meno di nove anni.