La tecnologia davvero ci salverà?
La soluzione alla crisi climatica è la tecnologia? Alcune voci autorevoli sostengono di no: dal premio Nobel Esther Duflo al neurobiologo Stefano Mancuso, recentemente intervenuto al Festival dell'Economia di Trento.
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Il piano climatico di Joe Biden
Il clima è uno dei capisaldi della sfida elettorale tra Donald Trump e Joe Biden, i cui esiti si decideranno con le attesissime presidenziali statunitensi di martedì 3 novembre.
Per un presidente in carica che ha sempre espresso parole di aperto scetticismo nei confronti del riscaldamento globale e ha voluto ridare slancio dall’industria del carbone, c’è un candidato che si dichiara “pioniere” sul tema dei cambiamenti climatici.
Nel suo piano ambientale, figlio del green new deal promosso dalla deputata newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez, Biden promette una “rivoluzione dell’energia pulita” che porti gli Usa ad azzerare le emissioni nette e raggiungere il 100% di energia da fonti rinnovabili, tutto questo entro il 2050.
“Possiamo creare nuovi settori che rafforzino il nostro comparto manifatturiero e possiamo creare posti di lavoro di alta qualità per la classe media nelle città degli Stati Uniti. Possiamo guidare l’America per farla diventare la superpotenza globale dell’energia pulita".
"Possiamo esportare in tutto il mondo le nostre tecnologie legate alle rinnovabili, creando occupazione anche nel nostro territorio. La transizione a un’economia basata al 100% sulle energie rinnovabili non è solo un obbligo, è un’opportunità”, si legge nella sua dichiarazione programmatica.
Per realizzare questo piano, Biden promette un investimento federale di 1.700 miliardi di dollari, che mobiliterebbe altri investimenti da parte di privati e amministrazioni locali e federali, fino a superare i 5mila miliardi di dollari.
Il ruolo della tecnologia nella sfida ambientale
Ma c’è anche chi teme che questa eccessiva fiducia nei confronti della tecnologia ci possa portare fuori strada. È il caso di Esther Duflo, economista francese che nel 2019 è stata insignita del Premio Nobel per i suoi studi sulla povertà, insieme a Michael Kremer e Abhijit Banerjee.
E di Stefano Mancuso, neurobiologo di fama mondiale, professore all’università di Firenze e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (Linv).
Nel suo intervento all’edizione 2020 del Festival dell’economia di Trento, Mancuso è stato categorico. Quasi tutti non si preoccupano a dovere dei temi ambientali (come il riscaldamento globale e la riduzione delle risorse) per la convinzione che la tecnologia riuscirà a risolverli prima che le loro conseguenze siano irreparabili. Ma questo – sostiene – è un pensiero “primitivo”, che colloca la tecnologia sullo stesso piano di un miracolo.
È successa la stessa cosa anche secoli fa, agli albori della rivoluzione industriale basata sul motore a scoppio. Da subito era evidente che il carbone fosse una risorsa limitata, ma gli scienziati avevano liquidato il problema promettendo di elaborare sistemi più efficienti per ricavarne energia.
Il loro proposito si è avverato, ma con una conseguenza paradossale: il costo della materia prima è sceso e il suo uso è aumentato. Una situazione che, sostiene Mancuso, ricalca quella che stiamo vivendo al giorno d’oggi.
“I problemi ambientali sono molto più profondi e non possono essere risolti con le tecnologie”, afferma. “Dobbiamo cambiare il nostro modo di porci nei confronti dell’ambiente, che non va più visto come un luogo pieno di materie prime da consumare, ma come la nostra ‘casa comune’, per riprendere le parole di Papa Francesco”.
Clima e coronavirus, due emergenze parallele
Modificare il nostro stile di vita non è certo una missione facile, ma il coronavirus dovrebbe averci insegnato che ce la possiamo fare. Mettendoci di fronte a un concetto molto caro agli economisti, quello di "esternalità".
“Con la pandemia abbiamo capito che le nostre azioni individuali avevano delle conseguenze sugli altri: se uscivamo di casa, dopo due settimane i contagi salivano”, spiega Mancuso dal palco del Festival dell’economia.
Spostandoci sul piano ambientale, il meccanismo è esattamente il medesimo. Se pretendiamo di avere 25 gradi in casa in pieno inverno, se ci mettiamo alla guida di un’auto anche per i tragitti che potremmo tranquillamente coprire a piedi o in bici, se ci riempiamo gli armadi di vestiti destinati a finire nella spazzatura sei mesi dopo, a pagarne le conseguenze è il Pianeta in cui viviamo.
Il nostro grosso problema percettivo, però, sta nel fatto che la crisi ambientale ha tempi molto più lunghi. Se anche per miracolo azzerassimo in questo momento la produzione di anidride carbonica, specifica Mancuso, dovremmo attendere almeno trent’anni per veder calare la sua concentrazione in atmosfera.
Tutto sta quindi alla nostra capacità di guardare oltre all’immediato, di porre le nostre azioni in una prospettiva più ampia. Di capire che vale la pena di essere forti e diligenti, proprio come abbiamo fatto rinunciando alla nostra libertà personale per mesi interi.