1 million women: un movimento per la difesa del Pianeta

Un milione di donne, provenienti da ogni angolo del pianeta, che si alleano contro i cambiamenti climatici e vogliono fare la differenza attraverso le proprie azioni quotidiane: è 1 million women.

1 million women

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Montaggio: Claudio Lucca

 

1 million women, cos'è 

Un milione di donne, provenienti da ogni angolo del pianeta, che si alleano contro i cambiamenti climatici e vogliono fare la differenza attraverso le proprie azioni quotidiane. Riassunto in poche parole, questo è il concept del movimento 1 million women, nato in Australia ma con un orizzonte ormai internazionale.

 

La sfida era quella di arrivare a un milione di adesioni, tutte al femminile: il sito ufficiale ci informa del fatto che questa soglia è stata superata. 1 million women è anche una vivace community molto attiva nei social network e dalla notevole rilevanza mediatica.

 

Natalie Isaacs 

“Poco più di un decennio fa, il mio stile di vita era molto diverso. Ero una produttrice di cosmetici, la mia vita girava tutta attorno al packaging e pensavo che i cambiamenti climatici fossero un problema di qualcun altro. Ma, per raccontare in breve questa storia, ho avuto un’epifania e sono cambiata”.

 

Chi ha fondato il movimento 1 million women è Natalie Isaacs, autrice di queste parole. L’epifania nasce da un fatto di per sé banale, un calo dei consumi di elettricità che le permette di risparmiare in termini di denaro ed emissioni. Ma è abbastanza per gettare il seme di una nuova consapevolezza. 

 

Isaacs abbandona quindi il settore della cosmesi e nel 2009 dà vita a 1 million women, con la missione di “permettere alle donne, ovunque, di agire contro i cambiamenti climatici attraverso tutto ciò che facciamo. Attraverso il nostro stile di vita, attraverso ogni nostra scelta, attraverso la nostra voce e il nostro voto”. 

 

Natalie Isaacs è autrice di “Right Here Right Now” e “Every woman’s guide to saving the planet”.

 

Una nuova consapevolezza della sofferenza del Pianeta 

Il fatto che nascano questi movimenti dal basso non è banale. Non è banale perché i cambiamenti climatici, per loro natura, sono difficili da comprendere: si manifestano nell’arco di decenni, su scala planetaria, anche attraverso fenomeni molto diversi gli uni dagli altri. 

 

L’essere umano va alla ricerca di rapporti causa-effetto chiari e immediati, ma in questo caso non funziona così. Le azioni, tanto individuali quanto collettive, portano dei risultati: risultati che tuttavia non si possono toccare con mano, non si vedono a occhio nudo.

 

L’essere umano, per giunta, si è evoluto perché nel corso della sua storia ha sempre cercato metodi per arrivare ai risultati risparmiando tempo ed energie. Per ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera, invece, bisogna fare proprio il contrario: rinunciare a delle comodità e mettere in discussione le proprie abitudini.

 

Ecco perché il fatto stesso che un’organizzazione di attivisti nasca e raggiunga una simile diffusione rappresenta, di per sé, una notizia. Nel caso di 1 million women, entra in gioco anche un tema di empowerment femminile: le donne rivendicano la loro centralità e il loro diritto a essere protagoniste del proprio destino.

 

La mission 

La missione di 1 million women è quella di raggiungere 1 milione di donne e ragazze, ispirandole a ridurre le proprie emissioni di CO2 attraverso semplici scelte della vita quotidiana, come generare meno rifiuti, evitare l’uso dell’auto e così via.

 

Così facendo, l’organizzazione vuole spronare le donne stesse a diventare agenti del cambiamento all’interno delle proprie famiglie e delle comunità in cui vivono. Il principio è semplice: all’aumento del numero di donne coinvolte, aumenta anche l’impatto collettivo delle loro azioni.

 

Il team e le ambasciatrici 

Natalie Isaacs è alla guida di un team tutto al femminile che ormai conta decine di professioniste ed è supportato da un advisory board. Una certa visibilità arriva anche dalle ambasciatrici, tra cui l’esponente politica Penny Wong, l’attrice Noni Hazlehurst, la campionessa di surf Layne Beachley, la modella Robyn Lawley.

 

Le campagne di 1 million women 

Nel concreto, cosa fa il movimento 1 million women? Attraverso la Carbon challenge, le partecipanti si impegnano ad apportare cambiamenti in chiave green nella propria vita quotidiana. Sommando le adesioni, ormai più di un milione, si arriva a un risultato (quantomeno dichiarato) di 703 miliardi di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera. 

 

L’organizzazione, la più grande del suo genere in Australia, ha poi all’attivo diverse campagne tematiche. Tra le più recenti ci sono per esempio le pressioni affinché l’Agenzia per la protezione ambientale australiana (EPA) diventi più ambiziosa, l’appello all’Unesco affinché classifichi come “in pericolo” la grande barriera corallina australiana, le iniziative contro lo spreco alimentare. Si parla, in ogni caso, di campagne di sensibilizzazione e comunicazione. 

 

Il blog e i social 

Ecco gli indirizzi utili per restare aggiornati sulle iniziative di 1 million women:

 

Il coraggio dei difensori dell'ambiente

Il coraggio delle donne attiviste per l’ambiente si vede nelle iniziative come 1 million women, ma anche e soprattutto in contesti – più lontani dai riflettori – in cui un simile impegno può esporre a minacce, violenze, ripercussioni, talvolta mettendo a rischio addirittura la propria vita.

 

La ong Global Witness ogni anno pubblica un report per conservare la memoria dei difensori dell’ambiente che sono rimasti vittime di attentati, talvolta di vere e proprie esecuzioni. Nel 2021 sono stati duecento in tutto: più della metà vivevano tra Messico (54 casi), Colombia (33) e Brasile (26). Ed è una stima parziale, perché ci sono omicidi che finiscono nel silenzio, senza processi né visibilità mediatica.

 

Più di un quarto delle vittime si batteva contro progetti volti allo sfruttamento delle risorse del territorio, come diboscamento, miniere, agribusiness su larga scala, dighe e altre infrastrutture. Più di quattro su dieci erano indigene: un fatto che non può essere ritenuto casuale, tanto più perché gli indigeni sono soltanto il 5% della popolazione globale.